Mi sono imbattuta per la prima volta in una fotografia di Luigi Ghirri durante la mia adolescenza, mi trovavo in una dimensione familiare, intima, privata, che fu all’improvviso squarciata dalla presenza di quella foto: un’immagine che, nel mostrarmisi, aveva manifestato contemporaneamente il perturbante dell’ignoto, del mai visto, e una segreta forma nuova di quella familiarità. Non conoscevo, ma già avvertivo sensorialmente, la base del pensiero fotografico dell’autore emiliano che avrei poi, decenni dopo, trovato esplicitata in un passaggio cruciale dell’introduzione alla sua raccolta Kodachrome, autoprodotta e uscita nel 1978: «La fotografia mostra sempre quello che noi crediamo già di sapere».

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