Nella letteratura italiana del secondo ’900 spiccano due casi speculari di fama postuma. Riguardano due grandi dilettanti, nel senso settecentesco del termine. Da una parte il principe Tomasi di Lampedusa, chiuso nella sua Sicilia conviviale, che col Gattopardo segnò il tramonto della voga neorealista confezionando un prodotto neodecadente subito apprezzato dalla nuova classe media del boom; dall’altra parte il borghese padano Guido Morselli, che cercò invano di rompere l’isolamento spedendo i suoi scritti a letterati e attori, e che nel 1973, dopo l’ennesimo rifiuto editoriale, si suicidò all’età di sessantuno anni, lasciando un’opera multiforme di lì a poco stampata da Adelphi e penetrata lentamente in un’élite di lettori via via più vasta.
Per capire la sfortuna di Morselli non bisogna dimenticare che i suoi capolavori narrativi risalgono agli anni ’60, cioè al decennio nel quale infuriava la polemica continentale contro il genere romanzo, dato autorevolmente per morto. E si trattava, nel caso, di romanzi privi delle spezie pittoresche e del pessimismo sintetico del Gattopardo: la loro originalità era tanto maggiore quanto più tendeva a presentarsi sotto vesti sobrie, che una società letteraria attratta dalle infrazioni clamorose degli antiromanzi poteva facilmente scambiare per tradizionali. Del resto la spregiudicatezza di Morselli, antistoricista ostinato, stava anche nel rifiuto di precludersi qualunque soluzione formale, comprese quelle che gli idolatri del Nuovo consideravano ormai inutilizzabili. La sua idea di romanzo è eclettica, flessibile. Secondo lui il romanziere deve dividere equamente le sue attenzioni tra il contesto sociale e i moti interiori dei personaggi. Ma né l’esterno né l’interno devono portare al determinismo: esiste romanzo solo dove gli uomini possono scegliere. A questa concezione si lega uno stile duttile, fluido, di una scorrevolezza quasi sonnambulica, che tiene insieme la stenografia da referto, l’affabulazione generosa da racconto d’avventura, e il puntiglio del saggio teorico. È lo stile che giunge a maturazione nel Comunista, e che poi si libera negli apologhi fantastorici o satirico-apocalittici, dove Morselli trasforma un’ipotesi metafisica in un esperimento dettagliatamente fisico e sociale: Roma senza papa, ambientato in un’Urbe ipertecnologica di fine XX secolo abbandonata dal pontefice per la prosaica Zagarolo; l’utopia retrospettiva di Contro-passato prossimo, dove la prima guerra mondiale è stata vinta dagli imperi centrali, e la Germania ne ha approfittato per favorire una illuminata “evoluzione unitaria” del continente; e Dissipatio H.G., che descrive l’evaporazione dell’intera umanità con l’eccezione di un unico superstite.

Le forme e gli argomenti tipici di quest’opera maggiore si ritrovano anche nella trentina di pezzi, inediti o introvabili, riuniti di recente in Gli ultimi eroi. Tutti i racconti, un volume morselliano curato da Giorgio Galetto, Fabio Pierangeli e Linda Terziroli per Il Saggiatore. In realtà ai racconti si alternano qui gli elzeviri, i diari di viaggio, i drammi, i soggetti e le sceneggiature, che messi insieme dànno un’idea attendibile del laboratorio dello scrittore durante la prima giovinezza e soprattutto nel cruciale decennio 1950-’70.
La varietà non disturba, anche perché è la scrittura stessa di Morselli a suggerire che non bisogna coltivare la superstizione dei generi: ovunque, Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo. Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.Questo contenuto è visibile ai soli iscritti