Nel saggio Ev’ry Time We Say Goodbye, John Berger si sofferma sulla descrizione della Cappella degli Scrovegni e scrive: «Giotto era un realista, e un formidabile metteur en scène. Le scene, che si susseguono, sono piene di crudi dettagli presi dalla vita. Credo che niente di quanto è arrivato fino a noi dai secoli passati sia più simile a un cinema di questa cappella ideata e edificata settecento anni fa. Qualcuno un giorno dovrebbe chiamare “degli Scrovegni” una sala cinematografica, proprio come la cappella, che porta il nome della famiglia che la fece costruire». L’immagine filmica rappresenta per Berger un modo attraverso il quale evocare qualcosa che non c’è più, una forma narrativa capace di riportare lo sguardo a essere uno strumento di lettura del reale.
Questo atto di osservazione profonda è fondamentale per un progettista, osservare la realtà ci aiuta a reinventarla nel nome del sogno, della visione che può ancora incidere sullo stato delle cose sino a trasformarlo radicalmente. I film sono dispositivi di osservazione che servono anche a questo: a immaginare una costruzione visiva che contribuisca a guardare il mondo in modo più attento.
Questo guardare alle relazioni tra uomo e spazio della città, tenendo assieme per la prima volta dentro un’unica raffigurazione una sequenza di luoghi, architetture e persone, è la grande novità dell’opera di Giotto e di Piero della Francesca, ed è oggi di fondamentale importanza.
Perché queste sequenze di immagini non sono leggibili attraverso uno scroll infinito, un movimento ripetitivo di un solo dito della mano, ma sono il frutto di un movimento lento del corpo nello spazio. Guardarsi attorno attraversando luoghi, fermarsi più del dovuto a osservare, può mostrarci chi siamo, ma specialmente può dirci come l’uomo usa lo spazio della città.
Se non abbiamo il tempo di fermarci, ci resta una sola occasione per capire chi è l’uomo urbano, visitare la mostra al museo SAM di Basilea che mette in scena dieci film dedicati a dieci città diverse: Napoli, Rabat, Bogotà, Seul, San Pietroburgo, Tokyo, Venezia, Doha, Shanghai e Kyoto. Gli autori sono Ila Bêka e Louise Lemoine, una coppia di registi che abita uno spazio inedito tra cinema, documentario, video-arte, architettura. I loro lavori sono nelle collezioni permanenti del MoMA di New York, del MAXXI di Roma e del Frac Centre-Val de Loire di Orléans.
Questi dieci film sono la registrazione di uno sguardo lento in direzione della città. Sono, come qualcuno li ha definiti, “esplorazioni libere”, che ci educano a saper guardare di nuovo il mondo che ci circonda mentre sta cambiando e si staadattando a condizioni sempre diverse. Le immagini sono senza commento e senza voce narrante, si limitano a mostrare gli umani che abitano, vivono e subiscono la città, ma allo stesso tempo la rendono viva definendone i tratti con i loro movimenti ripetuti. Homo Urbanus è anche una riflessione sulla necessità dello spazio pubblico, che sempre di più negli ultimi anni viene appaltato a investimenti privati: una piazza esiste perché appartiene a un centro commerciale, un parco funziona perché gestito da chi lo ha finanziato. Oggi lo spazio pubblico dovrebbe rinascere da un’esigenza di appropriazione, di resistenza alle forze economiche e politiche che governano la crescita urbana.
In ogni cultura esistono complesse interazioni tra le persone e i loro ambienti, i film di Beka & Lemoine lo dimostrano perché sono veri e propri saggi visivi che riflettono sui comportamenti individuali e collettivi, sulle dinamiche interpersonali che spesso generano tensioni sociali o semplicemente definiscono il mondo in cui viviamo. In un dialogo costante tra l’architettura e chi la usa, la camera segue i personaggi, li prende per mano, li presenta così come sono. Sono film critici, intelligenti, in cui si nasconde un grande amore per la città come luogo e per quel confine leggero che esiste tra ciò che si vede ed è reale e le possibilità del progetto che può accogliere tutti questi movimenti. Louise, infatti, dice che un edificio non può essere fotografato e rimanere così incontaminato, se è vivo deve potersi trasformare nel tempo. La stessa cosa vale per la città.
I film non vanno scelti in base alla città che rappresentano, ma valutati nel loro insieme, perché ognuno è un capitolo diverso dello stesso libro. Mostrano gli uomini, le loro nevrosi, poi i luoghi che li ospitano, scrivono un grande romanzo in cui lo spazio diventa il protagonista che attrae le storie attorno a sé. In questo caleidoscopio di personaggi gli autori ricostruiscono una storia dell’architettura non convenzionale fatta di narrazioni parallele, un’opera aperta sul mondo dell’architettura e non solo. Un’opera composta da fotogrammi che non hanno un andamento lineare, ma seriale, quasi a voler analizzare la realtà di città diverse attraverso tipologie gestuali, l’attesa dei lavoratori, le attività quotidiane dell’abitare che si svolgono in strada, il tempo libero, il rapporto con gli animali, l’uso dei mezzi di trasporto, il cibo, il buon design frutto del caso.
Film dopo film, città dopo città, si riattiva continuamente un ciclo infinito, quello per cui tutti gli uomini urbani si proiettano verso vite composte dagli stessi gesti. Quando è sera si spengono le luci e l’indomani si riprende dall’inizio, ma ci accorgiamo subito dagli sguardi verso il cielo con cui si comincia, che la città è cambiata, Shanghai è diventata Doha, Rabat, Napoli.
Aldo Rossi ha scritto che l’architettura «è la scena fissa delle vicende dell’uomo, carica di sentimenti, di generazioni, di eventi pubblici, tragedie private, di fatti nuovi e antichi». Una definizione, che riassume la visione collettiva dell’architetto e permette di comprendere il ruolo svolto da questa disciplina nel contesto urbano e sociale. Homo Urbanus si libera dell’architettura, considera l’uomo il propulsore delle dinamiche urbane. Secondo Rossi, il dato ultimo nella realtà è rappresentato dai fatti urbani, per Ila e Louise, invece, è la realtà umana che costituisce il punto di vista da cui definire la città stessa. L’atto di guardare attiva la nostra immaginazione, il ricordo delle città percorse, amate, odiate. Attraverso l’uomo urbano e la sua danza immobile, ogni inquadratura, ogni fotogramma ci parla di noi.