C’è un aneddoto attribuito variamente a seconda di chi lo racconta: al direttore, a un caporedattore, alla proprietà del «Corriere della Sera». Qualcuno avrebbe detto: «Mai più un Pasolini, mai più un Testori in prima pagina». Se fosse falso sarebbe ancora più significativo. L’aneddoto è la prova del fastidio tutto italiano per il dibattito delle idee. Quel «Mai più» è un ritorno all’ordine, e l’ordine coincide con le opinioni standard dei benpensanti. In fondo c’è anche di peggio: l’idea che la cultura non valga una telefonata di proteste, sapete com’è, di quello meglio non parlare male che è il fratello del moroso della cugina di un amico di un amico. Di quella meglio non parlare male che è amica della dog sitter di un inserzionista. Lasciamo stare, sono solo libri, cose inutili da intellettualoidi, evitiamo problemi.
Gli articoli di Pier Paolo Pasolini, sul «Corriere della Sera», aprivano regolarmente un dibattito. Era la prima metà degli anni Settanta. Le tesi erano spiazzanti. Da tempo Pasolini invitava a riflettere sul genocidio culturale e sulla mutazione antropologica. Il consumismo è destinato a omologare il mondo. Il nuovo regime avrà un aspetto tollerante ma si rivelerà totalitario. L’efficienza del mercato globale richiede consumatori identici l’uno all’altro. Ogni diversità sarà spazzata via con la scusa della tolleranza. Il cambiamento economico è veloce e globale. Dunque, travolgerà tutto ciò che è lento e locale (le tradizioni, la Chiesa, il dialetto). Pasolini picchia anche a sinistra: il progresso non deve essere confuso con lo sviluppo e dunque non può consistere nel mettere un televisore in ogni casa. La contestazione si è rivelata funzionale al capitalismo. Può aver senso cancellare la morale tradizionale e l’autorità a patto di inventarsi un nuovo modo di essere tolleranti, illuministi, liberi. Il Sessantotto non ne è stato capace, ha soltanto rimosso gli ultimi ostacoli all’affermarsi del capitalismo globale. È arrivata una modernità, scimmiottata e volgare, che ha contaminato i ragazzi e deturpato il paesaggio. Resta uno straziante rimpianto.
Le bordate eretiche di Pasolini non erano solitarie nel panorama degli anni Sessanta e Settanta. Veniamo a un altro protagonista del dibattito di idee dell’epoca questo Convegno, Franco Fortini
Gli articoli corsari sono da leggere in parallelo con il romanzo rimasto incompiuto, Petrolio. Il travaso di temi dall’uno all’altro contenitore e la mescolanza di generi sono in linea con la poetica di Pasolini espressa nella Divina Mimesis. I suoi dattiloscritti sono un campo di battaglia sempre aperto a nuovi sviluppi e l’appunto, che è diventata la cellula minima del lavoro, è pronto a “migrare” da un’opera all’altra. Di solito, i detrattori sottolineano come Pasolini, in un famoso articolo, dicesse di sapere i nomi di chi aveva distrutto l’Italia, tuttavia senza farli. Ma in Petrolio i nomi ci sono, eccome.
Un altro esempio. Il 7 gennaio 1973 la polemica Contro i capelli lunghi arriva sulle colonne del «Corriere della Sera». La moda è sintomo di un atteggiamento servile e volgare. Comunisti e fascisti sono diventati indistinguibili: sono tutti piccolo borghesi, sono tutti rivoluzionari per finta, sono tutti conformisti. Ma la polemica contro i capelli lunghi entra anche in Petrolio, nei capitoli danteschi della visione del Merda, che passa in rassegna le brutture dei giovani sfigurati dal consumismo.
Le bordate eretiche di Pasolini non erano solitarie nel panorama degli anni Sessanta e Settanta. Veniamo a un altro protagonista del dibattito di idee dell’epoca, Franco Fortini. Anche i suoi articoli, sui quotidiani ma soprattutto sulle riviste, sono fucilate al conformismo di destra e di sinistra. Ecco un assaggio prelibato, giusto per dare una idea, tratto dalle pagine, eterogenee per provenienza, raccolte in Verifica dei poteri. Partiamo dalle false libertà. L’erotismo non è più un tabù. Fortini, spietato: «Bisogna davvero essere molto candidi per credere di esorcizzare a così buon mercato il nostro bisogno di oscurità». Il mercato ha bisogno di trasgressione o almeno di posizioni nette. Fortini, spietato: «Da noi invece, fino ad ieri almeno, molti critici militanti credevano di correre con la maglia del marxismo e dello spiritualismo cattolico e non sapevano di aver già stampato, sulla schiena, il nome di una ditta di tubolari della cultura o di dentifrici letterari».
Cosa si è perso, secondo Fortini? L’arte dovrebbe essere una risposta alla trasformazione dei rapporti umani in cose e quindi un modo di conservare o preservare l’immagine umana, sì che, come voleva Schiller, dalla copia si possa un giorno ricostruire l’originale
L’analisi della catena produttiva della letteratura, dalla creazione alle vetrine della libreria è di una cattiveria sublime. I facili sociologismi sono il nuovo trastullo di una società letteraria che accetta supinamente le regole del mercato a tutti i livelli e infatti i confini tra critica accademica e critica militante si fanno sempre più sottili. L’avanguardia stessa è già compresa nei bilanci pubblicitari e nei preventivi degli industriali della cultura. Chi, oggi, tra i letterati, detiene un potere morale, lo detiene «come delegato del sistema non come suo ispiratore o critico». La figura del mediatore culturale è prevista dal capitalismo: serve a spiegare, dunque a razionalizzare, il mercato (rendendolo più efficiente). In questo panorama è impensabile che lo scrittore sia voce della coscienza nazionale o storico della vita privata. Quanto alla frivolezza e alla fuga nel disimpegno: è un’illusione, perché si resta comunque all’interno di regole editoriali che discendono da una logica industriale. Cosa si è perso, secondo Fortini? L’arte dovrebbe essere una risposta alla trasformazione dei rapporti umani in cose e quindi un modo di conservare o preservare l’immagine umana, sì che, come voleva Schiller, dalla copia si possa un giorno ricostruire l’originale.
Anche gli affondi in campo politico sono lucidissimi e premonitori. La sinistra ha esaltato, come nuovo corso socialista, «una tecnocrazia generalizzata», di fatto funzionale alla «economia competitiva». L’orizzonte della socialdemocrazia moderna è tecnologico e Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo. Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.Questo contenuto è visibile ai soli iscritti