«Graffiti artists are the copywriters for the capitalist created phenomenon of urban art. Graffiti artists are the performing spray-can monkeys for gentrification». Nel 2009 il nesso tra street art e gentrificazione era già a tal punto evidente che il collettivo Appropriate Media aveva cominciato a bombardare di vernice rossa le opere di Banksy nella sua città di origine, Bristol. Nel manifesto che accompagnava lo “splashing” del pezzo di Banksy, raffigurante un piccolo gruppo di poliziotti contro un orso bianco con una molotov, si denunciavano le sue “pigre polemiche” adatte ai gusti moderati dei circuiti intellettuali progressisti non tanto come una forma di mercificazione dell’arte underground, ma come, appunto, il cavallo di Troia del marketing urbano, il motore della valorizzazione immobiliare e della conseguente espulsione dei ceti meno abbienti. 

Anche in Italia è esploso il fenomeno Banksy con le sue mostre blockbuster, alimentando da un lato una fioritura di prodotti street style di largo consumo – graphic novel, docu-film, magliette, scarpe, corsi di skate, rap, parkour per bambini, laboratori di murales nelle scuole e nei quartieri –, dall’altro le effimere lamentele sulla perdita di autenticità di un’arte che nasce illegale. In particolare fa scalpore il caso di Bologna: nel 2016 la Fondazione Carisbo promuove la mostra Street Art. Banksy &Co. – L’arte allo stato urbano, esponendo alcune opere staccate dai muri. Blu, uno degli artisti più amati della scena italiana, decide a quel punto di cancellare i suoi monumentali affreschi per boicottare l’appropriazione di un’arte nata come pubblica da parte del mercato e delle istituzioni. Immediato arriva l’appoggio, tra gli altri, di Wu Ming: «Di fronte alla tracotanza da landlord, o da governatore coloniale, di chi si sente libero di prendere perfino i disegni dai muri, non resta che fare sparire i disegni. Agire per sottrazione, rendere impossibile l’accaparramento». 

Nel circuito dei writers si registrano pochissime reazioni, subito occultate, all’ondata di murales celebrativi spesso inguardabili che ha invaso le città

Questo gesto di diserzione sembra l’inizio di una rinascita orgogliosa dello spirito antagonista, della natura indisciplinata di chi scrive o dipinge sui muri. Nel suo libro Elogio delle tag Andrea Cegna sostiene che «Blu, e forse solo Blu poteva farlo, abbatte la retorica della street art buona e della street art cattiva. […] Mi chiedo da che parte si sta? Da quella di chi deturpa per mesi la facciata di una cattedrale con una pubblicità di dieci metri per dieci? O da quella di chi dice la sua, con una bomboletta, sull’ordine che ci circonda?». 

E invece la lotta è apparsa ampiamente domata negli anni successivi. Nel circuito dei writers si registrano pochissime reazioni, subito occultate, all’ondata di murales celebrativi spesso inguardabili che ha invaso le città.

Questo contenuto è visibile ai soli iscritti

Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo.

Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.