Nell’ospedale psichiatrico di Branice, dove Marian Henel entra a ventiquattro anni e dove abiterà tutta la vita, c’è una grande sala, è così grande che ci stanno belli larghi due tavoli da ping pong. Anche le pareti sono grandi, e altissime, una è piena di finestroni che danno su un cortile, quella accanto è interamente ricoperta da un mosaico. 

Un mosaico così grande che se lo si vuole vedere tutto insieme bisogna allontanarsi almeno d’una decina di metri. Copre tutta la parete e rappresenta l’Ultima Cena, sí, ma non è il tema rappresentato a stabilirne la maestosità, è l’imponenza che campeggia dal muro e occupa lo spazio e lo sguardo. Su quella parete non succederà mai altro, non verrà mai aperta una finestra, non si appenderà un quadro, un messaggio, nulla, quel mosaico è e sarà la parete. 

Nel Museo Etnografico di Wrocław, di fronte ai tappeti di Henel, ho avuto la stessa reazione. Mi sono avvicinata, ma l’imponenza della sua geniale mostruosa fantasia mi ha fatto arretrare e, man mano che mi allontanavo, i particolari demoniaci, grotteschi e soprattutto adorabili di quei suoi mostri prendevano spazio. Se lo prendevano tutto. Il suo gigantesco paesaggio interiore era uscito fuori, era sul muro, lì, disegnato e tessuto davanti a me, e mi ha trasmesso l’euforia che solo il genio sa trasmettere. Mi sono messa a scalpicciare sul posto, mentre le labbra mi ripetevano sillabe di stupore, gli occhi mi si spalancavano per fare spazio a tanta meraviglia e le dita mandavano le immagini agli amici. 

Potessi chieder qualcosa a Henel gli chiederei se la presenza di quel mosaico oltre i tavoli da ping pong lo avesse in qualche modo ispirato. Se gli aveva dato un’idea. Perché lui le idee le aveva certo tutte già belle vive dentro la testa, ma insomma il suo spazio è stato quell’ospedale, e per tutta la vita è stato grazie a un percorso di arte terapia se quei mostri sono usciti fuori e sono finiti tessuti sotto forma di arazzi. Un percorso sperimentale di terapia occupazionale portato avanti da medici illuminati nella Polonia degli anni settanta, un paese povero e forse anche isolato, ma quanto e come sensibile e perfettamente al passo coi tempi ancora in pochi se ne rendono conto. 

Pazzo, senza alcun dubbio, ma un artista. E i suoi arazzi, teatro di quella ricca pazzia, sono infatti enormi, giganteschi

Fatto è che i suoi arazzi sono rimasti ben custoditi, fin da subito in ospedale hanno capito che erano un materiale da trattare con cura e che Marian Henel, o Maniuś, come lo chiamavano, era un artista vero. Pazzo, senza alcun dubbio, ma un artista. E i suoi arazzi, teatro di quella ricca pazzia sono infatti enormi, giganteschi, il che significa che per mesi è rimasto seduto al telaio a stringere nodi e prima ancora a sistemare lo spazio di lavoro, a dividere i gomitoli di lana, a separare i colori. Vicino all’ospedale c’era una grossa fabbrica di tappeti, e in qualche modo gli scarti dei materiali sono finiti in ospedale. Henel cercava i fili più lunghi, perché aprire e chiudere un colore è noioso, ma il filo costa caro e si fa con quello che c’è. Comunque sia il tempo di preparazione per arrivare a riempire una parete gigantesca della sua fantasia fermata in illustrazione era un tempo lunghissimo. A fare un tappeto ci mette sei mesi, un anno, che a pensarci e a vedere come sono complicati non è neanche molto. 

Chissà che cosa provava quando chiudeva l’ultimo nodo e il tappeto era finito. Forse lo attaccavano a una parete e anche lui faceva qualche passo indietro per guardarlo nella sua interezza.

Marian Henel era nato nel 1926, in un paesino il cui nome suona qualcosa come “Alle stalle”, insomma, non proprio il fervore della metropoli. Della sua vita prima del ricovero si sa giusto quello che ne racconta lui, ma di sicuro era nato non voluto, non era un orfano, insomma, perché la madre c’era, ma lo aveva abbandonato e le sue esperienze tra famiglie affidatarie e orfanotrofi non furono altro che terribili, finché a ventiquattro anni finisce in carcere per aver dato fuoco a una stalla. Non voleva che prendesse fuoco, dice in un video, voleva soltanto bruciare un po’ di paglia, solo che in cinque minuti “wszystko się kurwa spaliło”, ossia tutto ha preso fuoco, con quel kurwa che chiunque abbia avuto a che fare con un polacco sa bene essere la parolaccia che sta sul tavolo un po’ come il sale, e si usa a pioggia, per dare sapore. Dal carcere viene in breve trasferito nell’ospedale psichiatrico perché ha tendenze violente, gli viene diagnosticato un disturbo della personalità e varie deviazioni sessuali.

E, naturalmente, in tutta questa estetica, è il culo che regna, la forma che lo attrae più di ogni altra

È la rotondità del corpo che lo affascina e lo ossessiona, per anni,

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