Negli anni Sessanta, in un profilo didattico di Marx composto con il consueto equilibrio, Raymond Aron scriveva che «quei filosofi sottili che vivono sulle rive della Senna e vorrebbero essere marxisti senza ritornare bambini, hanno immaginato una serie di interpretazioni, le une più intelligenti delle altre, del pensiero profondo e definitivo di Marx. Quanto a me, non cercherò un’interpretazione sommamente intelligente di Marx». E non la cercherà, dice, perché ritiene che le sue idee centrali siano “più semplici” di quelle reperibili nelle riviste che, un secolo dopo, dedicano disamine cavillose perfino ai più schematici scritti marxiani abbandonati dall’autore alla critica dei topi. Aron allude ironicamente alla cultura dei suoi vecchi compagni di studi, in primis Sartre, e dei loro epigoni più o meno eretici. Ma queste righe valgono a maggior ragione per gli esegeti molto più capziosi che nella generazione successiva vollero rovesciare la vulgata novecentesca, e cancellare dal marxismo qualunque traccia di umanesimo: è il caso di Althusser, ad esempio, che al giovane antropologo dell’alienazione oppose lo scienziato del Capitale, e che col suo stile involuto e bellico, ma soprattutto con la sua esaltazione feticistica, finì per ricoprire le pagine marxiane di quei misteri che Marx aveva cercato in ogni modo di dissipare. «Qualunque teoria che voglia diventare l’ideologia di un movimento politico o la dottrina ufficiale di uno stato”, concludeva saggiamente Aron, “deve prestarsi alla semplificazione per i semplici e alla sottigliezza per i sottili. Senza dubbio, il pensiero di Marx presenta queste virtù al massimo grado: ognuno può trovarvi quel che vuole».

Già nei suoi scritti giovanili, la critica è un’arma che non pretende solo di confutare ma di annientare l’avversario. Di qui scaturisce la satira, cioè il genere che sancisce sia l’interruzione del dialogo sia la riduzione dell’interlocutore a cosa

Oltre che dalla teoria, “virtù” del genere dipendono dalla forma in cui è espressa. Come dire che Marx è insieme un filosofo, un economista, un profeta-ideologo, un efficacissimo retore – e un grande scrittore. Oggi la questione del ruolo giocato dallo stile nella sua opera e nella sua fortuna ci viene riproposta in Retorica e polemica nel “Capitale” di Marx, un libretto intelligente e scrupoloso di Elisabetta Mengaldo edito da Quodlibet. Soffermandosi sul primo volume, l’unico pubblicato in vita dal filosofo, Mengaldo prova a mostrare

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