Non so voi, ma per quanto mi riguarda la vita mi ha portato diverse volte all’orlo. Ricordo con speciale tenerezza uno di questi momenti, tornavo in aereo da Messina, cioè da Reggio Calabria (come si sa non c’è aeroporto nella prima città). Ero andato a Messina per seguire alcune pratiche relative a certi beni di famiglia. Avevo pernottato a Ganzirri, noleggiato una macchina (che usavo quando non ero scarrozzato dal “geometra”, che in effetti era una specie di, come chiamarlo? tuttofare, a bordo di una Seat sgangherata alla quale, sul retro, accanto alle lettere della marca, a caratteri non identici ma simili, aveva apposto il proprio cognome; ma più spesso preferivo seguirlo nell’auto a nolo) e avevo avuto a che fare con un notaio (almeno tale veniva qualificato) che aveva il proprio studio in un garage con la saracinesca aperta per tre quarti, al piano terra di una via di Messina, un antro buio nel cui fondo, in pantaloni azzurri e camicia bianca come i capelli sparati sulla testa, sedeva, inerte, immobile dietro a una cassettiera più che una scrivania, e che dovetti prendere a male parole per scuotere alla vita. Non mi piacque farlo, ma non mi sembrava, allora, che stesse peggio di me, dunque perché risparmiarlo. Nei due o tre giorni che durò la mia missione, non credo che combinai granché, ma a ogni modo feci quanto mi era stata richiesto e, alle prime ore di un pomeriggio dal cielo terso, arrivai al modesto aeroporto di Reggio Calabria per prendere il volo che mi avrebbe riportato a Roma. Da tempo mi volevo ammazzare, una settimana sì e una settimana no. Era un pensiero talmente invadente e paralizzante che nemmeno mi dava il fiato di riflettere a come l’avrei fatto; in altre parole, era un pensiero suicidale informe e, sotto questo aspetto, grezzo, o puro. Non era ancora progettuale. Come se progettare la modalità mi fosse sembrato già un gran lusso, e quasi una fighettata. In fondo, ripensandoci oggi, più che ideare un suicidio, miravo a un’autodistruzione, un’abolizione rapida e purchessia del mio dolore. Un dolore che, ripercorso oggi, stento a capire, tanto era ostinato ed estremo, ma era una malattia di gioventù, o almeno in quell’età aveva le sue radici, e forse adesso non posso più comprenderlo. Durante il soggiorno messinese, mentre svolgevo gli incarichi che mi erano stati richiesti, quel pensiero fu abbastanza efficacemente temperato dagli atti che, non senza l’opposizione della proverbiale inerzia, mi sforzai di compiere, dalla visione dei paesaggi, dalle memorie delle precedenti visite ai parenti, ora presenti solo come fantasmi perché quasi tutti defunti, dalle cene a base di pescespada in una trattoria di Ganzirri, dallo stupore di fronte alla camminata di una ragazza con la gonna nera in piazza Cairoli, dalla visita a un cugino che viveva in un appartamento nudo e provvisorio come una rovina di guerra, e nel quale mi accolse tuttavia caloroso, e quasi fiero, al punto da offrirmi dell’acqua in un bicchiere dalla trasparenza appannata e con un deposito ocra, e che bevvi perché curioso di conoscere quale sarebbe stato il sapore, utile a classificare ancora meglio quel superstite del parentado (aveva il gusto aspro e stantio delle cucine poco pulite nelle case mai arieggiate) e, dunque, stornato, come dicevo, quel pensiero normalmente così insistente di colpevole inutilità, dal mio affaccendarmi in appuntamenti, sopralluoghi e visite che, tutti, nessuno escluso, avevano il carattere dell’assurdo che mi sembrava sfolgorante sullo Stretto, di un assurdo effimero e leggero di un’umanità non plasmata dall’argilla ma soffiata nel vetro, mi sentivo ancora protetto da un sentimento di solitudine, tuttavia, attiva, come quella di chi ha abbracciato “un incarico” per conto della famiglia, senza che per altro questa sappia che la propria disponibilità a quel dovere, del resto prospettato con tassatività e cui non sarebbe stato indolore sottrarsi, è dovuta solo al tentativo di sfuggire ai pensieri ossessivi, al rifugio mentale, insomma, offerto da un diversivo – un diversivo concreto, operativo, non un’angosciosa vacanza – nella città d’origine del ramo materno.

Al momento di partire e tornare ai luoghi dove avrei ritrovato la quiete (per la quale, paradossalmente, avevo perfidamente combattuto la mia più lunga e coraggiosa battaglia) di escogitare le più raffinate torture per la mia mente, cioè la mia città e la mia casa, più che naturale che mi chiedessi, non senza patetiche intonazioni collodiane: “E adesso? Chi mi difende dalla mia solita vita?” Salii a bordo del mio aereo in questo stato d’animo che, celiando un po’, potrei definire da kamikaze, e, a questo punto, dovrei dirvi che, all’epoca, nutrivo ancora una coda del terrore di volare che, inspiegabilmente, alcuni anni prima mi aveva afferrato. Basti dire che, più di una volta, avevo sognato di cadere con l’aereo. Sogni molto realistici, nel senso ristretto del punto di vista onirico, dove non il minimo dettaglio è criticato dalla coscienza come implausibile o falso, nulla a che vedere con le ridicole ricostruzioni dei disastri aerei nei film, con quel panico fasullo, caotico, nella cabina, le maschere dell’ossigeno che saltano fuori dai loro alloggi, luci che lampeggiano, donne che strillano e bambini che piangono. Il mio precipitare era calmo, solenne e ineluttabile come una monodia di Ildegarda di Bingen. Si andava all’inferno con tutta la fusoliera in silenzio, rassegnati, e, in certo modo, pacificati. Senza esplosioni o impatti, si perdeva quota fino a raggiungere le infime profondità, coperti appena dallo spolverio di una pudica ombra. Il che non vuol dire che mi svegliassi senza sentire fin nel profondo dell’anima un terrore primordiale. Tuttavia, già all’andata, non avevo accusato alcun particolare spavento, e, ora, al ritorno, col violento e pesante impulso di morte che m’investiva, a cadere con l’aereo proprio non pensavo. O così almeno credevo, prima che il velivolo cominciasse a rullare sulla pista di decollo. In effetti, quando cominciò a avviarsi, e con gran forza poco prima di staccarsi da terra, quella sciagurata eventualità, con mia sorpresa e quasi involontariamente, cominciai ad augurarmela. Certo, non voglio che crediate che io non pensassi che, oltre a me che me ne stavo seduto al mio posto di finestrino (non ricordo se in testa o in coda), ci fossero anche tutti gli altri passeggeri. La cui maggioranza, ritengo, non aveva nessuna voglia di morire, sia per meticolosamente studiato suicidio che per improvvisa abolizione. Ci pensavo, eppure, mi dicevo, se questo aereo cade, non sarà certo per colpa mia, del mio pensiero, sarà per quel caso imperscrutabile che i cristiani chiamano provvidenza. Gli altri condivideranno la mia sorte, solo che a me andrà bene, a loro no. Quante volte capitano queste cose. In qualunque disastro con centinaia di vittime, ce ne sarà pure stata una che, tutto sommato, si sarà detta: evvai, è fatta… per una volta, quell’improbabile che volevo, si è realizzato, e pazienza se è una catastrofe. Se quell’aereo, che con ogni evidenza non è caduto, fosse precipitato, io sarei stato quella voce dissonante. Dunque, fin dal decollo, come una specie di preghiera all’incontrario, cominciai forse non proprio a invocare il disastro (ripeto, la presenza degli altri passeggeri mi obbligava a più di uno scrupolo) ma a blandirlo, a lusingarlo, a invitarlo. A questo punto si pone una domanda, dal mio punto di vista, abbastanza interessante: come si fa a blandire, a lusingare, a invitare un disastro? Facile: lo si immagina bello, lo si converte dal segno negativo a quello positivo. Con ciò non necessariamente (anzi) lo si raffigura con la fotografia dello spettacolo grandioso, ma bello, poetico, insomma, nella circostanza di quel volo di ritorno da Messina (Reggio Calabria) a Roma, qualcosa che avesse la dolcezza tragica e implacabile delle catabasi oniriche di cui dicevo sopra. Se tutto fosse andato come nei miei sogni, sarebbe stato perfetto.

Quell’etereo terrore e il mio stato d’animo disperato si sarebbero annullati vicendevolmente, e tutti i miei problemi, o meglio, il mio problema, sarebbe stato risolto né di schianto né piagnucolando, ma con una fulminea dissolvenza. Senonché l’aereo procedeva senza nemmeno incontrare l’insidia di una leggera perturbazione, forte della sua potente tecnologia come della solidità delle leggi dell’aerodinamica, della physis, e, a poco tempo dal decollo (non saprei dire esattamente quanto), guardando fuori dall’oblò, ebbi una delle poche, rare visioni della mia vita. A differenza di quel che per lo più si crede, ritengo che le visioni non siano immagini fittizie, prodotte dalla nostra immaginazione, o meglio, non sono queste le visioni più potenti e dunque, per me, visioni vere e proprie; le visioni sono per l’appunto osservazioni di oggetti reali, che chiunque altro, da uno stesso punto di vista, vedrebbe, ma che per qualche combinazione degli affetti, dell’emotività, e, certo, degli specifici pensieri che si nutrono al momento della percezione, risaltano come magicamente scontornate, oppure immerse in una quintessenza sublime. Per questa ragione non è detto (ma nemmeno escluso) che chiunque veda una visione di questo tipo, la condivida anche con gli altri che gli sono vicini. Quel che importa, è che lui, in quel momento, ha certamente una visione che resterà indelebile nella sua memoria, incisa nella sua vicenda esistenziale e carica di un significato in piccola parte chiaro, ma in gran parte oscuro, simbolico, profetico. La visione che ebbi io, attraverso l’oblò, fu quella delle isole Eolie. In particolare, di una delle Eolie, con il suo vertice vulcanico, il suo cono arcaico alquanto inclinato data la traiettoria del velivolo. Non la riconoscevo, e ancora oggi non saprei dirvi quale delle Eolie fosse. Ma, effettuando una virata, il mezzo librato sul Mediterraneo sembrava omaggiarla, accarezzarla, e sì, blandirla, al tempo stesso in cui se ne teneva a debita distanza come un ostacolo catastrofico, e come (così sentivo io) un’agognata distruzione. La distruzione silenziosa, perfettamente calma, sicura, incontrovertibile. Quell’isola era stupenda, e ancor più perché, presso di lei, più o meno distanti, si scorgevano le sue altrettanto placide e inconcusse sorelle. In quel preciso istante, intendo dire, in quel preciso istante della visione, il fiotto di morte che mi portavo dentro fin dalla scaletta finalmente si liberò e mi possedette come uno spirito, un demone. L’isola che, abbracciata con le altre dell’arcipelago, vedevo dal mio posto, e la morte che mi portavo dentro, risciolta dalla sua compressione dal richiamo della prima, si strinsero, si allacciarono inestricabilmente, e io ne fui stranamente rassicurato, confortato e lenito. Fu una sensazione singolarissima e irripetibile, che conservo, come blanda traccia, solo nel ricordo. Una volontà di morte, e una di vita, si erano incontrate e si erano guardate a lungo, e infine, si erano inspiegabilmente nutrite l’una dell’altra, consumate e, come si dice in gergo filosofico, superate. Questo ricordo di vita e di morte, di catastrofe e di volteggio sul mare e sulle isole, è uno dei pochi, uno dei rari, che voglio conservare nello scrigno dell’ultimo dei miei giorni, e so che lì mi accompagnerà anche se non lo vorrò.