L’anno nuovo si è aperto con una polemica stravecchia: la critica è morta. Compie ormai trent’anni Notizie dalla crisi di Cesare Segre, primo pronunciamento diagnostico sulla disciplina agonizzante, per la quale, dodici anni dopo, nel 2005, Mario Lavagetto avrebbe rassegnatamente suggerito nel libro eponimo l’«eutanasia», vista la conclamata incurabilità del male. Ma perché, cos’era capitato all’arte di distinguere il grano dal loglio, e dunque di individuare ciò che vale rispetto a ciò che non mette conto di essere studiato, analizzato, infine recensito? La critica da sempre è considerata ancillare, subalterna, competitiva. Il critico non scrive motu proprio ma reattivamente, in accordo o in opposizione a qualcos’altro: ispirazione, idee, senso del mondo altrui. Il critico, nell’opinione comune, non è un mediatore tra autore e opera ma uno scrittore che non ce l’ha fatta, e questo sarebbe all’origine del noto sopracciglio alzato (highbrow). Con l’avvento dei media, e ancor di più dei social media, inimmaginabili ai tempi delle prime diagnosi fatali, gli strumenti e i luoghi della critica hanno perso efficacia e senso: il saggio, la recensione, le terze pagine, non li legge nessuno che abbia meno di trent’anni. Tutt’al più un articolo può sperare di diventare virale, di essere citato in qualche trasmissione radio o tivù, ma meglio ancora di guadagnarsi il retweet o il tag di instabooker o booktoker.

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