Una studentessa mi ha chiesto come mai, secondo me, posto che la poesia abbia a che fare con l’interiorità, e che tutti abbiamo bisogno di un contatto più intimo con noi stessi, nessuno legge più poesia. Partiamo dalla premessa: non è affatto detto che la poesia abbia a che fare con l’interiorità. La poesia può avere a che fare con un mucchio di altri fenomeni, epifenomeni, esperienze, ed è sempre stato così, dalle origini a ChatGPT (non citato a caso, come più avanti chiarirò). E in particolare le poesie degli ultimi vent’anni, a tenerci stretti, cioè le poesie scritte a partire dagli anni in cui, a occhio e croce, è nata la mia studentessa. Quando dico che le poesie hanno la data accanto, quest’affermazione sgomenta non solo gli studenti ma anche alcuni colleghi: non siamo tutti d’accordo sull’idea di storicizzare la poesia e alcuni sarebbero più propensi a conservarle, chissà perché, un’aura di unicità e specificità, rispetto alle altre arti. La poesia è tale perché è a-temporale e dice cose universali. Un poeta avveduto come Nanni Balestrini si domandò, con una boutade celeberrima, perché alla poesia si vogliano affidare incombenze metafisiche e sovrumane (addirittura “salvare il mondo”) che non si associano mai ad altri passatempi, come “il giardinaggio o il balletto”. La poesia è un gioco di linguaggio, non è affatto a-temporale, e non è una questione di allargamento della cosiddetta poetic diction al lessico o all’immaginario del contemporaneo. Un verso come «ti libero la fronte dai ghiaccioli» Montale lo scrive da post-simbolista, mentre andava scoprendo che la poesia poteva farsi carico non solo dell’interrogazione esistenziale ma anche di quella storica e contingente. Ungaretti poteva dire «è il mio cuore il paese più straziato» perché era in trincea e stava combattendo in guerra, fisicamente. In una poesia datata 2025 questi versi farebbero lo stesso effetto di una Madonna con Bambino in un’opera di Burri. 

Quando si legge una poesia ci si aspetta che parli sempre di verità assolute, a un cuore eternamente palpitante, e che riferisca di un’interiorità assorta, meditativa, in assetto di patimento e in dialogo imperituro con la natura

Quando si legge un romanzo, mettiamo, i Promessi Sposi o il Conte di Montecristo, si conserva un senso della distanza storica, si sospende, come dicono i teorici, l’incredulità. Quando si legge una poesia no: ci si aspetta che parli sempre di verità assolute, a un cuore eternamente palpitante, e che riferisca di un’interiorità assorta, meditativa, in assetto di patimento e in dialogo imperituro con la natura, con i suoi elementi, alcuni dei quali implausibili nell’orizzonte cittadino in cui per lo più viviamo immersi: foreste, boschi, torrenti li vediamo, se siamo dei viaggiatori, in occasioni transitorie che non ci ispirano, chissà perché, un desiderio di approfondire la geografia ambientale o le scienze naturali, bensì, note del telefono alla mano, una poesia. La poesia è questa cosa qui: una specie di fesseria estemporanea, o, all’opposto, un oracolante baedeker di cui burlarsi in un romanzo, come ad esempio nel libro obbligatorio di questo periodo, Il giorno dell’ape di Paul Murray, nel cui primo capitolo le protagoniste si imbattono in una esuberante insegnante di Inglese, con delle idee letterarie a dire il vero piuttosto reçues, che spiega loro come la poesia potrebbe “cambiare il mondo” (con buona pace di Balestrini), se solo venisse letta di più. Non bastasse il cliché enunciato in modo rozzamente massimalista, arriva l’esemplificazione fideistico-topologica: «se si guarda al mondo, a un piccolo pezzo di mondo, e si cerca di osservarlo per quel che davvero è, si comincia a vedere con più chiarezza anche sé stessi. E questo può essere molto liberatorio. A volte può salvare la vita» (nella traduzione dell’incolpevole Tommaso Pincio per Stile Libero).  Una delle due si procura a quel punto il libro di poesie della professoressa e lo trova con suo sommo sconcerto volgare, pieno di parole oscene (fosse quello, il problema): «[…] era come guardare dentro qualcuno, entrargli sottopelle e sguazzare nel suo sangue, nel vero senso della parola. A chi poteva piacere un simile spettacolo?». 

In realtà la sequenza, almeno per quest’ultima parte, non è affatto implausibile. Spesso propongo ai miei studenti, sia universitari che dei corsi di scrittura,

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