Liceo del Made in Italy, lotta all’immigrazione, addirittura proposte di legge per multare chi usa parole straniere? Questo governo non finisce mai di stupirci nella sua ebefrenia. E la musica come al solito, vedrete, non verrà risparmiata. Già nel 2019 la Lega proponeva di inserire più musica italiana nelle radio, una canzone su tre, e già allora la proposta era surreale: non tenendo conto che le nuove tendenze italiane sono bene o male copie di cose già masticate all’estero e soprattutto che la storia della musica italiana non ha niente a che vedere con la purezza, anzi. Per dire, uno come Mogol, fan di certe proposte “identitarie”, rimuove completamente il suo passato di adattatore di testi inglesi o americani di altrettante canzoni coverizzate da band come i Dik Dik e l’Equipe 84. E – cosa ancora più paradossale – ha scritto testi addirittura per band che di italiano non avevano manco un’unghia incarnita del piede: ad esempio i Rokes, tutti inglesi al cento per cento. 

I Rokes a malapena riuscivano a pronunciare l’italiano, eppure non importava a nessuno, il loro beat era esaltante e brani come Ma che colpa abbiamo noi sono rimasti nella storia. All’epoca la cosa creava esotismo, la gente impazziva per quel modo così strano di parlare la “nostra lingua”, tanto che addirittura molti cantanti italiani si misero a “far finta di essere inglesi”, interpretando i testi delle loro canzoni in un modo che era effettivamente più musicale (e la tradizione poi divenne un trademark della new wave italiana, pensiamo ai Gaznevada o ai Pale). 

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I Primitives furono un’altra band fondamentale per questo aspetto “sexy” del sound “oriundo” del nostro rock. Yeeeeeeh!fu un successo strepitoso, e il look principesco dei nostri anticipava addirittura il new romantic di Adam Ant. Il batterista divenne il perno ritmico dei Dire Straits, ma partendo dall’Italia e non il contrario: ragazzine ai piedi e vera vita da popstar, tanto che l’inciso di Toto Cutugno «e se vai a cercar fortuna in America/ ti accorgi che l’ America sta qua» non è poi così campato in aria. E non possiamo dimenticare gli eroi afroamericani tutti italiani: il Rocky Roberts di Stasera mi butto, che portava il R&B più “caldo” in una penisola che voleva buttare al secchio la repressione dei sensi e il conservatorismo e vedeva in lui un’icona della libertà. Un altro eroe “italian black”, Wess, che sostituì Roberts proprio nella sua band nel momento della carriera solista, ebbe lui stesso un percorso “a solo” a parte il sodalizio fortunatissimo con la poi moglie di De André, Dori Ghezzi. E lì tra un testo italiano su corpo soul Usa e una strizzata d’occhio alla tradizione italiana (tanto che poi canterà anche nel collettivo nazionalpopolare Squadra Italia a Sanremo del 1994, proprio l’opposto di un discorso funk), portava innovazioni in lingua inglese spingendo molto sul sound nero, sulla “sex machine” che per loro era una Ferrari e da noi era ancora una 500. Le eroine d’ebano non mancavano, come Lola Falana che, scoperta a Las Vegas, diventerà una delle soubrette più amate quaggiù: soprannominata “Venere Nera” inciderà dischi tra i quali Scrivimi il tuo nome coi Roll’s 33 nonché Tutta donna (e, ironia della sorte, nel 1982 sarà la protagonista dello show Made in Italy proprio sulle reti Fininvest). Tra i tanti che si trasferiscono da noi ci sono i francofoni: ricordiamo l’anarchico Leo Ferrè, tra l’altro autore di album “sperimentali” di sicuro interesse. Dal Madagascar, ma di origine corsa, Antoine avrà successo in Italia per Le Pietre, canzone di protesta sui generis, diventando una specie di “Donovan de noantri”, anche lui con una pronuncia francesizzata irresistibile. E dalla Francia come dimenticare Dalida? Una delle cantanti che hanno venduto di più in assoluto nella storia della musica del nostro paese, voce italiana della versione di Bang Bang degli americanissimi Sonny e Cher, musa di Tenco e addirittura insignita del titolo di “commendatore della Repubblica Italiana”. Sempre dalla Francia ma naturalizzata britannica, Amanda Lear metterà radici in Italia diventandone – incredibilmente – uno dei simboli, lavorando anche con produttori “atipici” come Roberto Cacciapaglia e importando un nuovo stile androgino e la disco rock più ambigua in tutta la penisola. Di nuovo stile, stavolta il punk almeno nel look – importato anche qui dall’Inghilterra – si parla con Anna Oxa, una di quelle nate “miste”, di madre albanese: tenuta a battesimo da Ivano Fossati e da Ivan Cattaneo, diverrà una della showgirls più amate d’Italia. Non mancano anche gli Showmen, e ovviamente non può che venirci in mente la band della grande coppia James Senese/Mario Musella, figlio di un soldato di colore americano l’uno e figlio di un soldato nativo americano l’altro: due “figli della guerra” che rivoluzioneranno la musica italiana con il loro rhythm and blues e jazz rock (Senese coi Napoli Centrale è oggi l’ultimo baluardo di una musica “dura e pura”). 

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La lista potrebbe continuare in eterno, a dimostrazione che l’“italianità” che intendono i nostri cari sovranisti è priva di fondamento, essendo tra l’altro i nuovi italiani in classifica sovente figli di immigrati. Gente come Ghali, di origini tunisine, uno dei giovani trap/cantautori dalla poetica più forte e dal seguito più sostanzioso, o Mahmood, madre sarda e padre egiziano, vincitore del Festival di Sanremo per ben due volte, nel 2019 e nel 2022. Ma abbiamo anche Malika Ayane, oramai fissa nel pantheon del pop del nostro paese, di origini italo-marocchine, o il romano Amir, rapper membro del collettivo Rome Zoo e autore che nel 2011 ha sfiorato il David di Donatello e il Nastro d’argento per la miglior canzone originale, tratta dal film Scialla!

Le nuove leve sono da sempre aliene nel loro paese. Certi politici dovrebbero imparare a pronunciare l’italiano “da stranieri”. Magari invece di apparirci così brutti, potrebbero “intrigarci” come Mal quando lanciava il suo intrepido “Yeeeee”.

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