È strano, ma negli ultimi anni diverse opere prime e seconde italiane tra le più sorprendenti erano ambientate in un mondo lontano, arcaico, che gli autori non hanno conosciuto: penso a Re Granchio di Zoppis e De Righi, o a Piccolo corpo di Laura Samani. Ogni fuga all’indietro, inevitabilmente, ci parla del presente, può avere origini nobili e portare a risultati notevoli. È questo anche il caso di Vermiglio, seconda opera di finzione di Maura Delpero, presentato in concorso a Venezia: qui, però, ciò che è lontano sembra nascondere qualcosa di misteriosamente, profondamente vicino. Vermiglio ha qualche punto di contatto col precedente lungometraggio della regista, Maternal, storia di novizie e ragazze madri in un convento in Argentina, anche se la situazione di partenza, pur sempre raccolta e concentrata su un gruppo di figure femminili, è diversa. Siamo tra le montagne del Trentino, nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale (ma all’inizio così fuori dal mondo che non si capisce nemmeno che guerra sia). Un paesino, la famiglia del maestro (Tommaso Ragno) con sette tra figli e figlie, una sorella e il figlio di lei. Quest’ultimo torna a casa dopo aver disertato insieme a un commilitone siciliano che viene nascosto nel villaggio, e la figlia maggiore del maestro (Martina Scrinzi) si innamora di questo ragazzo che parla una lingua diversissima dalla loro. Il film è concentrato soprattutto sulle donne, che emergono da una specie di coro promiscuo: la figlia maggiore che si innamora del giovane ospite; la seconda con turbamenti religiosi ed erotici e cosciente dei propri limiti; la piccola, la più intelligente e vivace; la madre sempre incinta, indurita e compressa dalla fatica. 

Cosa è che rende questo film, dal tema così ostico e remoto, non solo emozionante ma anche a suo modo attuale? È, direi,

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