Un attimo prima un colpo secco alla porta, poi è il turno del parquet che scricchiola. Giù, giù, negli abissi dello specchio liberty, la silhouette di nonna balugina come l’acqua in fondo a un pozzo. La luce si fa largo con un battito d’ali: nonna ha tirato le tende di broccato. Sipario. Sul canterano c’è un vassoio con la mia colazione, l’attrezzatura di scena. Cornetti, un, due, tre, quattro e cinque, tante chiocciole di burro, un bricco di latte sul quale si è rappresa la panna, una ciotola di marmellata, il tè che sbanda nella tazza filettata e si rovescia sul centrino di pizzo. Nonna mi porge il vassoio a letto dopo che mi sono puntellato contro i cuscini (affondo i gomiti, crollo, mi rialzo), si siede sulla poltrona capitonné e mi guarda con le mani giunte mentre mangio senza ingordigia, almeno all’inizio. Ogni tanto un rumore o un lampo riflesso dalle finestre della casa vicina mi fa alzare la testa. È l’estate con le sue perle fasulle. Quando ho finito nonna si complimenta («Un sano appetito! Bravo che hai mangiato tutto!») e io lascio che ritiri il vassoio dal copriletto disseminato di trucioli di sfoglia. È così regale, con il suo chignon alto che si dice “alla greca” e il disegno calligrafico del rossetto color ciclamino in tinta con il kimono, eppure è servizievole. Con mia sorella non andava allo stesso modo. Lei era irrequieta e non mangiava. Si nascondeva in soffitta a guardare ritagli di giornali e vecchie foto (articoli su bambini scomparsi corredati da primi piani petulanti, foto di famiglia che sembrano appartenere a un’altra epoca solo perché magari ci vedi ancora mamma e papà, con la postluminescenza negli occhi delle persone morte giovani, un segreto appello…) o in dispensa, la fresca e cavernosa dispensa dove sono stipate le confetture, le mostarde, i salumi, insomma tutto il bendidio delle riserve di nonna, da lumare con avidità mentre brontola lo stomaco.
Adesso dovrei lavarmi, ma perdo tempo a collezionare le briciole e a sfogliare un volume illustrato che tengo sul comodino. Le acqueforti sono dettagliate e tentacolari. Lo sguardo rimane intrappolato nelle linee di contorno che si avvolgono a spirale e si snodano sulla pagina. Ogni volta individuo un particolare nuovo: una vipera tra ciuffi d’erba di parvenza pubica, l’ala di una mosca che penzola dalla filaccia di una ragnatela.
Su, andiamoci a lavare! Com’è faticoso spostarsi da quando sono ingrassato! Giro a fatica la manopola a bocciolo della porta del bagno, dissimulata dalla tappezzeria a festoni paralleli di rose e mele. Per entrare nella vasca devo scavalcare il bordo, quasi inciampo e, dopo, punto il doccino d’ottone un po’ ossidato, come uno stetoscopio, sui vari quarti della mia carcassa cercando di raggiungerne i pertugi. Mi studio nello specchio della toeletta: il mio solo pregio sono i capelli lisci, docili alle prepotenze del pettine. Disporli lungo una scriminatura qualsiasi è uno scherzo. In un angolo della mia memoria si srotola un inseguimento, una comica quotidiana fino a poche settimane fa: spazzola saldamente impugnata, nonna mi sta alle calcagna e io scappo, caracollo più che altro. Non so perché mi ero convinto che la mia zazzera spettinata fosse una specie di ultima trincea. Non mi avrà vivo, mi dicevo.
Il resto del corpo lo evito come costeggiando l’orlo di uno squarcio. Mi viene un’idea improvvisa, un capriccio, prendo i capelli e provo a raccoglierli in alto sul cranio. Mi sposto di lato per mettere in risalto il mio profilo aquilino che trovo elegante (forse un altro piccolo punto di forza ereditato da nonna). Quando li lascio ricadere, il mio sguardo si sofferma, suo malgrado, sul mio riflesso. Mi vedo. Il petto si arrotonda in una parodia di seno, abbottonato da due automatici di lacca di robbia. Le braccia crollano sui fianchi come schiuma espansa spremuta dalle spalle. Per fortuna non posso scendere sotto le ginocchia. Pendule bisacce di grasso mi coprono le vergogne, come le chiama nonna, e non c’è parola più azzeccata per designare quella ferita che non si rimargina e mai lo farà.

Intorno alle dieci e mezza, undici, dopo che ho avuto il tempo di rifare il letto con meticolosità e di tentare un nuovo allunaggio sull’invitante rotondità dei cuscini trapunti, ecco che torno ad ascoltare il ta-tà, ta-tà giambico dei passi di nonna sulle scale e poi fuori dalla camera. La manovra, che è costretta a eseguire, è complicata, posso solo immaginarla, abbassa cautamente la maniglia con il gomito e colpisce la porta con un calcio ben assestato, le mani occupate dalla tovaglia ripiegata e dal vassoio. Varca la soglia con il mio spuntino: un succo di pompelmo, rosa o giallo a seconda, una scodella di mandorle tostate, e mezza torta, che oggi è un’ottima crostata con i fichi, raccolti nel giardino prima che marciscano a terra come pipistrelli sventrati, malchiusi nell’astuccio delle ali. Il centrino che ricopre il vassoio d’argento non è stato sostituito, carezzo con le dita le macchie e inorridisco (lo specchio mi rimanda l’immagine del mio scontento a bocca stretta).
La merenda di metà mattina è il momento del plein air. Le nostre scampagnate, le chiamiamo (l’ossigeno va alla testa e si rischia di cadere nella magniloquenza). Con una tovaglia a scacchi spianata sul copriletto e un mazzolino di fiori secchissimi (briciole, sempre briciole), evochiamo un picnic in tutti i suoi deliziosi particolari. È una seduta spiritica. Raffiche di vento spettrale, cinguettii ultraterreni, persino le strilla di altri gitanti da un cielo di anime gioconde e la luce solare che pizzica sulla pelle come un arto fantasma. A volte mettiamo delle pagliette, un fiocco. E infine mangiamo, o meglio mangio. Parto dalla spremuta, per scomporne metodicamente sulla lingua il dolceamaro, e nonna, dalla sua poltrona, mi rivolge la parola perché sa che ormai sono bello sveglio: «Buona la spremuta eh? Hai visto che sole? – che, all’occorrenza, diventa: hai visto che nuvoloni? Come esperti teatranti sappiamo adattarci all’imprevisto – E pensare che tra qualche settimana te ne andrai e io rimarrò qui sola, senz’altra consolazione che qualche bella giornata prima del freddo…ti ricorderai di chiamarmi? Ti ricorderai della nonna?»
Mangio e mugolo in segno di assenso quando il discorso di nonna lo richiede. I dolci, potrei non smettere mai di mangiarli: è come se, una volta strabiliate le papille, si smaterializzassero nel sistema digerente senza produrre sazietà. Per variare il gusto, sgranocchio mandorle.
«Cosa ci sarà per pranzo?»
«Una bella sorpresa»
E così la mattina sfuma nel mezzogiorno e con un certo anticipo mi ritrovo a scendere le scale, diretto in cucina. Com’è naturale, procedo lentamente e mi tengo al corrimano scolpito, spostando un piede alla volta -con un ritmo trocaico questa volta: tà-ta!-. La tavola di solito è già apparecchiata, in mezzo la fruttiera zeppa di arance di Capodimonte (al massimo mancano i bicchieri o il cestino del pane che più spesso contiene dei tranci di focaccia) e mi siedo sulla panca accostata alla parete, così sto comodo. Durante il pranzo, non parlo granché; a parlare è lei, racconta di quando aveva stregato il nonno con il solo libro presente nella casa della matrigna o di quando, un anno dopo, in una lontananza non meno leggendaria, passeggiava per la Promenade des Anglais, sbattendo le palpebre per i troppi brillii che si accendevano tutt’in giro, e nel frattempo spilluzzica le lasagne ai fiori di zucca e besciamella con i rebbi della forchetta, come se stesse cercando una lisca nel piatto, e appoggia sulla tavola le mani inanellate che rivelano l’età solo nelle giunture spesse. Osservandole meglio, noto che le falangi, annodate stretto, sono un po’ storte e le macchie della cheratosi la divorano fino ai gomiti, ma, se chiudo gli occhi, rivedo soltanto l’amigdala sanguigna delle unghie che risalta sul biancore della sua carnagione, uno strano effetto Doppler.

Il primo pomeriggio è vischioso come carta moschicida: mi appisolo sotto la pergola in giardino davanti alle rose di nonna e ci rimango per un’ora. Un tempo mi addormentavo dondolando sul berceau, ma l’ultima volta, a un mio semplice movimento, l’intera struttura ha traballato e sono sceso per paura di ribaltarmi.
Verso le tre e mezza, prima del suo solitario, vedo nonna chiacchierare con Ermenegilda, le offre a mo’ di ricompensa del radicchio sminuzzato e, per parte sua, l’uccellino la ripaga con un salto di trespolo e un trillo, come nei giorni davvero fortunati («…brava, Ermenegilda, che hai mangiato tutto…ci vuoi far sentire la tua voce…»). Ermenegilda è il nome della mamma di nonna, morta quando nonna aveva due anni, ed è l’ultimo di una lunga dinastia di canarini in gabbia. L’Ermenegilda attuale è svogliata e si fa letteralmente pregare per prodursi in un fiacco zompo o in un fievole fischio. A volte non si può fare a meno d’incoraggiarla con il ferro da maglia, lasciato per questa ragione in una mangiatoia di scorta, sempre vuota. Quando il canarino esegue, nonna ruota verso di me il suo profilo adunco, increspato dal più fine dei sorrisi, come un direttore d’orchestra che riceve finalmente sulle guance la carezza dell’armonia.
Sono le quattro ed è ora della merenda! Io rimango sul divano davanti alla scacchiera. Da quanto tempo sua maestà è sotto scacco? La tovaglietta sul vassoio, questa volta, è fresca (nelle pieghe si annida il profumo del sapone alla lavanda) e voglio stare attento a non macchiarla con la cioccolata o con le fragole alla panna. Non ho moltissimo appetito, colpa del caldo. Sono intormentito dalla stessa ennui di cui nonna si lamenta nei giorni coperti e afosi. Dà dei colpetti al vassoio invitandomi a servirmi, a non essere timoroso.
…e la fine del pomeriggio avanza dalle porte-finestre della sala. Il lento crepuscolo estivo approfondisce in me la malinconia con la visione di altre estati, potenziali, sgranate lungo un Mediterraneo mitico. Nonna a volte mi invita ad aiutarla a innaffiare i fiori, accompagnandola con il massiccio annaffiatoio di metallo nel suo periplo del giardino. Lo tengo con tutte due le mani appoggiandolo di tanto in tanto alla gamba e, se mi capita di versare un po’ d’acqua, provo una leggera umiliazione mista a imbarazzo, e lei mi comunica la sua stizza con una secca emissione d’aria dal naso. Negli ultimi giorni, però, nonna sa che non me la sento di camminare con il peso dell’annaffiatoio e mi limito a guardarla dal salone, immerso in un’atmosfera color tè.
Mi sento chiamare. Sono di nuovo i vicini. Per fortuna è nonna a scacciarli. La sua figura è sormontata dal lampo delle cesoie, sta potando le rose.
«Vieni a giocare, Hansel! HANSEL!».