Nel bar di gusto scandinavo – tonalità pastello, bianco, linee neutre, Kanelbullar zuppi di caffè acquosi, odore di cannella sintetica nell’aria – la cameriera sorride con l’incertezza di chi ha portato a lungo l’apparecchio per raddrizzare i denti. Sul suo vassoio si affastellano stoviglie e tovagliolini sporchi, che attutiscono il rumore. Chiede se non abbiano bisogno di qualcosa. Luca risponde con fermezza che non hanno bisogno di nulla.
– Che regalo vorresti?
Clara resta a fissare la schiena della ragazza, i suoi movimenti goffi: sembra quasi giusto – quasi una pena esemplare – che il barista in camicia di flanella, intento a lisciarsi la barba castana che si arrossisce alle punte, non l’aiuti a liberarsi del carico più in fretta, svuotando il bancone delle tazzine lasciate dai clienti di prima o togliendole il vassoio dalle mani. Una posata in bilico sul bordo del vassoio cade per terra e il suono metallico rimbalza dal pavimento tra le pareti della piccola sala, intrufolandosi tra le conversazioni e nell’orecchio di Clara.
– Allora? Non venirmi a dire che non hai fatto un elenco.
Clara si concentra a scomporre in unità più piccole i suoni che hanno lasciato la bocca di Luca per attraversare il suo timpano, e riconoscerne il contenuto. Le dita di Luca battono ritmicamente sul vetro antigraffio del dispositivo: un tonfo leggero ma fastidioso, specie se sommato al chiacchiericcio delle ragazze al tavolo e al tappeto lo-fi che promana dai diffusori acustici.
– Scusa, non ti ho sentito.
– Di nuovo. Ho detto: Voglio. Sapere. Che cazzo. Regalarti. Per Natale.
Clara non fa in tempo a formulare una stupidaggine qualsiasi, per prendere tempo.
– Dici che ami le sorprese ma non è mai vero.
– Io amo le sorprese.
– Certo. Le ami come quel coso per i centrifugati vintage che ti ho preso l’anno scorso.
Deve fare uno sforzo per impedirsi di rivivere il frastuono di quel motorino dal wattaggio ridicolo che ha rombato UNA volta sul suo piano cottura, come preparandosi a lasciare una pista di rullaggio.
– Non lo usi mai.
– È difficile da pulire.
– Non usi mai neanche le perle grigie. Non le hai mai messe.
Clara ripensa alla foto di sua madre, le fosse magre delle sue clavicole. Le piccole sfere attorno alla gola, bagnate di luce laterale, i triangoli d’ombra sulla sua pelle color gesso, pallida e porosa. La foto, come il girocollo, come il collo: persi da anni. Ma che colpa ne ha Luca?
Una ragazzina, accovacciata in terra nell’angolo della parete finestra appannata che dà sulla strada, assembla piccole renne di cartone, la pistola della colla a caldo in mano. Il naso a pompon di lana non vuol saperne di arrendersi e di starsene fermo al suo posto, al centro del muso bidimensionale. Il padre, che è anche il proprietario del bar, finge o sceglie che il suo aiuto non le serva. La colla cade gentilmente senza produrre il minimo suono, così anche la bocca della bambina, stretta ed esangue nella concentrazione: non un fiato.
Clara vorrebbe alzarsi da tavola e sedersi con la piccola, a giocare. Non ha più voglia di finire il suo blister di vitamine. Luca propone di dividere un dolce, ma neppure quello le va, così lui si alza prima per prendere le giacche termiche; ci tiene ad aiutarla mentre la indossa, ama sfiorarle le scapole mentre le tira su la zip come rubandole il permesso. Nella fretta di alzarsi prima di Clara, strascina le gambe della sedia sul pavimento, che manda un suono gracchiante e roco, facendola rabbrividire. Nel dirigersi verso la porta, lei non si ferma a ricambiare la gentilezza di aiutarlo, né si ricorda di ringraziarlo della sua. Il tono stizzito di Luca chiude il discorso: – Sei pregata di farmi sapere.

Per strada il crepuscolo muore in fondo alla via, oltre il check-point, verso le colonie agricole. Luca si sorprende a guardare da quella parte. L’aria rinfranca la pelle anche sotto le giacche. Clara la sente diffondersi in un fremito dalle scapole e dalla nuca sudata, giù fino al bordo dei calzettoni tecnici e dentro agli stivaletti. Affretta il passo, come se fosse importante rincasare in fretta per contare di esserci ancora tutti.
– Dovremo andare a visitarle, una domenica che non pranziamo da mia madre.
– Cosa?
– Le colonie.
La ragazza lascia che la frase svolazzi via come una cartaccia. Luca ha parlato senza riflettere, non solo perché pretende che mangino dalla madre ogni domenica, o per i cumuli di ghiaccio ammassati al confine della città, alti quanto palazzi di un paio di piani. Per un momento è sembrato che Luca sul serio ritenga possibile andare alle colonie agricole così, come dicesse: Andiamo a vedere uno di quei mercatini dei primi Zeroventi. Ultimamente le capita spesso di pensare che Luca dica solo sciocchezze; abbassa la testa per impedirgli di decifrare la sua espressione, un istante solo, poi gli sorride in risposta.
– Sarebbe bello.
Ogni volta è sufficiente articolare un minor numero di parole.
È un sollievo che la domenica soltanto siano invitati, pensa Clara, fissandogli la forma delle spalle cadute mentre lui allunga il passo e la supera per marciarle davanti in fila indiana, e che gli altri giorni abbiano vergogna di digiunare gli uni di fronte agli altri.
In strada gli ultimi gruppi di persone si affrettano verso le proprie case. Nessuno si arrischia ad andare da solo, e poi ci vuole un permesso. Luca senza fermarsi fa un cenno con la testa, per suggerire di attraversare.
– Facciamo un giro ai Magazzini Tiger?
Quando arrivano dall’altra parte, nella vetrina le luci più lontane sono state già spente e dentro il negozio sembra non esserci più nessun cliente. Luca si avvicina comunque all’ingresso, aggrappandosi alle maniglie con entrambe le mani e scuotendole con forza sempre maggiore, dando anche qualche colpetto alla porta con la punta della scarpa. Sembra che il suo cervello viziato si rifiuti di afferrare un concetto semplice come l’orario di chiusura. Clara si concentra sulla vetrina. Coglie di sfuggita la mano di una commessa, il balenare di denti bianchi tra due lembi del fondale di velluto: colleghi che, se forzatamente si comportano tra loro in modo cordiale nonostante la stanchezza del fine turno, non lo danno a vedere. Il led sopra l’ultimo espositore sfarfalla, plateale, catturando lo sguardo di Clara: su una torretta cilindrica, più affusolata in cima e rivestita di velluto azzurro, due piccoli oggetti concentrici, due auricolari rivestiti in morbida epidermide sintetica riposano sulla stoffa soffice, come se aspettassero solo lei da tutta la giornata. Il grande cartello dalla grafia che mima la grazia voluttuosa di un corsivo vittoriano promette
NOISE CANCELLING EARPLUGS
Più in basso, nel margine destro del cartello, piccole lettere capitali danno a chi legge un ordine perentorio: Arrenditi alla tranquillità.
– Quelle –, indica Clara, e deve ripeterlo ancora per attirare l’attenzione di Luca, che ancora cerca di entrare, con voce più forte, con voce così forte che il suono riverbera dalle sue tempie come una scossa, e quasi la stordisce. – Quelle voglio. Voglio quelle per Natale.
*
Il salotto è più affollato di ogni altra domenica dell’anno, sono venuti a festeggiare il Natale parenti che Luca neppure sapeva fossero sopravvissuti. Ha presentato Clara a tutti con orgoglio, portandola in giro da un divanetto all’altro come un fosse un prosciutto con l’osso vinto alla riffa del quartiere, e ogni parente aveva un ricordo imbarazzante di Luca bambino da condividere con lei. Dopo aver recitato la poesia strascinando con perizia tutte e ottantadue le sillabe finali di ogni strofa, i tre gemelli di sei anni, i figli della sorella di Luca, hanno preso a correre urlando In periferia fa molto caldooo. Idea brillante della madre di Luca, insegnare loro una vecchia canzone dei suoi tempi ai bambini, per toglierseli dai piedi.

Clara continua ad avvicinarsi alle finestre dai vetri rivestiti di costosa pellicola termoisolante, confidando nel momento in cui la madre o la zia di Luca saranno distratte per far entrare almeno un filo d’aria. In strada, agli operai che costruiscono il rifugio non è stato permesso di fermarsi, neppure oggi, e il rumore della terra smossa e delle scavatrici e dei cumuli di terra secca e compatta rimbomba da oltre gli infissi: tra la cagnara fuori e dentro casa Clara non saprebbe cosa scegliere.
Quando arriva il momento di scambiarsi i regali, la confusione di voci si sposta in un blocco compatto nella stanza accanto, ma Clara non ha il tempo di godersi la semi-quiete che per un istante è ristabilita, perché Luca è bravissimo ad accorgersi della sua assenza anche in uno spazio affollato di persone.
– Non vuoi scartare il tuo regalo?
– Arrivo.
– Se non ti sbrighi, i gemelli apriranno anche i nostri pacchetti.
Clara sa che non soffocherebbe l’impulso di indossarle subito, se davvero nel piccolo scatolino blu con un pattern di lettere – MT MT – goffrate e sagomate di vinile ci fossero le cuffiette che azzerano ogni rumore, così aspetta, seguendo i garbati scambi, le dita che ostentano mollezza al frusciare degli incarti, gli occhi sgranati. Le sue dita continuano ad arrotolarsi intorno al filo argentato del fiocco. Il ginocchio destro trema come se dovesse staccarsi dal corpo per andarsene da qualche parte per conto suo. Quando la sorella di Luca le offre un sacchetto di carta specchiata, piatto e senza volume, Clara lo afferra quasi strappandoglielo dalle mani.
– Spero di aver indovinato la tua misura, sei così sciupata, ultimamente…
Mansueta, Clara ringrazia del cardigan di nanoteflon di un colore raccapricciante. Mentre se lo fa aderire alle spalle per provare la larghezza, i tre bambini non la finiscono di volteggiare intorno ai resti di carta specchiata sul pavimento come avvoltoi, continuando a cantilenare Sei così sciu-pa-ta, così sciu-pa-ta, così; Clara ha come la chiaroveggenza, o forse il bisogno di vederseli stramazzare ai piedi, senza respiro, in un cozzare di piccole ossa.
– Piantatela! –, li sgrida stancamente la madre di Luca affacciandosi dal corridoio, la sua voce sovrasta a stento il frastuono di pentole e mestoli alle sue spalle, stoviglie sbattute tra loro con un baccano incongruo per la misera mensa che s’imbandisce e verrà consumata in fretta da lì a poco. – Dai, potete venire di là, ora.
Luca aspetta che tutti siano usciti dal salotto per mettersi addosso quell’espressione vezzosa di uno che la sta combinando.
– Buon Natale, amore.
Clara apre la scatola blu – MT MT MT – legge il biglietto ripiegato, dischiude le labbra per emettere un verso sensuale, quasi un guaito, neppure fosse una sorpresa. L’ultimo suono che sente è il rumore di imballaggi, carta-pacco e resti di nastri che vengono raccolti e infilati nel sacco nella spazzatura dalla donna di servizio.
Il pranzo è breve, ognuno finisce il proprio blister in assoluto silenzio, dopo aver sorbito una minestra di religiosa calma. La scena è passata lontana da lei, come da un televisore senz’audio: le bocche si sono aperte attorno ai cucchiai, la saliva raggruppata agli angoli delle labbra a formare filamenti, i bocconi sono scesi in santa pace nelle gole fameliche, senza il minimo suono.
Il momento del caffè arriva in pochi minuti come previsto. I grandi ritornano in salotto, i nipoti di Luca ricominciano a correre e spingersi.
Quando il bambino con la faccia più da schiaffi prende a tirare verso di sé la tovaglia del tavolinetto su cui poggia il grosso vaso di cristallo, Clara sa già cosa accadrà, ma non dice niente, e quando il vaso si inclina quasi al rallentatore, neppure allora dice niente, e quando il cristallo incontra la fronte del bambino, disintegrandosi, o quando il bambino si accascia sul pavimento, il movimento seguito da una girandola di gocce di cristallo che ricadono a cascata, microscopici arcobaleni rosso sangue su cui muore la luce, Clara non sente le grida degli altri due fratelli, né di nessuno dei parenti, non sente il frastuono delle scarpe che pestano sul tappeto di piccolissimi vetrini che erano stati un vaso fino a qualche istante fa, né delle suole pesanti del padre che accorre dalla cucina a soccorrere il bambino, né le grida del piccolo, che pure devono essere state di un certo stridore, visto che dal suo sopracciglio lacerato esce un fiotto di sangue arterioso che nel giro di niente gli bagna la fronte, il cerchietto con le corna di cervo, i capelli, e la faccia, il mento, la superficie del pigiama bianco a piccole renne stampate e le pantofole a forma di unghia fessa. Non sente neppure il tonfo con il quale la madre dei tre bambini crolla in terra, né sente le figurine di Swarovski cozzare tra loro nella vetrinetta, eppure vederle le vede, mentre tremano come se potessero provare una qualche forma di paura, anche se la maggiore loro qualità di oggetti è starsene in silenzio a non prendere parte in niente. Vede scuotere le teste prima della zia di Luca, poi di sua madre, l’espressione turbata delle cugine dai denti di perla e dai golfini spumosi. Le mascelle si serrano nello sdegno, o si spalancano per la disperazione, ma a Clara quelle pose arrivano rallentate, distanti. Anche la bocca del più anziano dei due infermieri, dopo poco, semi nascosta da una fitta cortina di baffi a spiovere, non produce alcun tipo di suono. Clara riesce a cogliere la gravità dei suoi gesti, o il modo lento con cui si pulisce gli occhiali sul lembo del camice, o la faccia stupida con la quale l’infermiere più giovane si china in terra per raccogliere il cerchietto bagnato di sangue e porgerlo alla madre, come se perfino lei potesse volerlo lavare, e magari riusarlo il Natale prossimo.
Clara si allontana camminando all’indietro fino a incontrare il davanzale della finestra. Osserva Luca, di spalle, allungare la mano verso il punto in cui lei stava fino a pochi momenti prima, lo osserva cercare la sua mano senza trovarla, e il suo sforzo inutile e stupido le fa venire la tentazione di ridere, ma si riesce a contenere. Le vibrazioni può ancora percepirle nelle orecchie, se commette l’errore di ridere.