Non c’è pace nel campus: da quasi un mese le parti comuni delle università più ricche e prestigiose del mondo sono diventate un campo di battaglia e di sgomberi attuati con la forza da poliziotti in assetto antisommossa.  A partire dalla metà di aprile le manifestazioni pro-Palestina hanno portato a più di duemila arresti in sessantuno college, decine di occupazioni sotto forma di accampamenti, professori in prima linea nelle proteste e, più di recente, a boicottaggi simbolici dei commencement speech, le imponenti e seguite cerimonie di laurea collettive: alla Virginia Commonwealth University decine di studenti si sono allontanati per non sentire il discorso del governatore repubblicano dello stato Glenn Youngkin, che aveva parlato di vietare tende e accampamenti; alla Duke University, in North Carolina, una fiumana di neolaureati ha abbandonato lo stadio in cui stava per prendere la parola il comico Jerry Seinfeld, accusato di simpatie filoisraeliane. La Columbia e la University of Southern California hanno dovuto cancellare o ridimensionare le loro cerimonie.

Che sta succedendo? Da una parte l’attivismo social-performativo, da tempo giustamente sulla graticola per la sua sostanziale inconsistenza, sembra aver finalmente trovato uno sbocco concreto, con persone scese in piazza (universitaria, in questo caso) a rappresentare istanze politiche. Dall’altra – come ha notato la scrittrice Zadie Smith in un discusso intervento pubblicato sul «New Yorker» – forse molte delle rivendicazioni sentite nei templi dell’istruzione superiore statunitense suonano più come shibboleth tribalistici che come elaborazioni sociali, etiche o politiche, un campus di sloganetti mentre fuori c’è la morte. Senza contare, fa notare la stessa Smith, che la prontezza con cui la protesta sminuisce il disagio degli studenti ebrei è quantomeno criticabile: «Può darsi che una studentessa ebrea che passa davanti alle tende, si ritrova additata come sionista e poi viene avvertita di tenersi a distanza, sia, in quel momento, la parte debole in causa» si legge sul «New Yorker».

Gli universitari devono essere presi sul serio, tuttavia,

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