Come ogni mese, Federico Nicolao ci parla di eventi e mostre d’arte passati, presenti e futuri: Non è detta l’ultima parola.
Se ne è parlato
Hong Sang-soo, What Does That Nature Say to You
La serenità nelle relazioni e la sincerità nell’incontro tra gli esseri umani: un grande ritorno ai suoi temi preferiti per Hong Sang-soo. Il celebre regista coreano, in What Does That Nature Say to You, firma uno splendido film d’autore sulla famiglia. Partendo dal primo incontro di un giovane aspirante poeta e sognatore con il papà della fidanzata, e dalla sua presentazione alla mamma e alla sorella, Hong Sang-soo ci consegna una sottile riflessione sulla Corea contemporanea e sui rapporti tra le generazioni. Interpretato con grazia da Ha Seongguk e Kwon Haehyo, il film rappresenta anche una lezione di cinema ed economia, con il suo autore che figura nei titoli non solo come regista e principale sceneggiatore, ma al montaggio, alla musica, al mixaggio e alla produzione.
Billy Shebar, Monk in pieces
Sicuramente uno dei più interessanti documentari d’arte visti negli ultimi anni, Monk in pieces è un film di Billy Shebar che ripercorre la carriera di un’artista visionaria: Meredith Monk – cantante, performer e anima dell’America e di New York negli anni Sessanta e Settanta. Figlia di Audrey Marsch, con un passato da diva della tv e della radio, Meredith influenza tutti, da Bruce Nauman a Philip Glass, da Bob Wilson a Terry Riley, e si afferma come un personaggio imprescindibile per la sua capacità di immaginare un’arte pluridisciplinare, pur partendo dalla sua principale e straordinaria qualità d’interprete e cantante. Performance, video, musica seriale, non c’è disciplina che non le debba qualcosa. Il documentario offre una testimonianza eccezionale della sua importanza. Intervengono lungamente sulla sua opera per renderle il dovuto omaggio anche Bjork e David Byrne.

Se ne parla
Huo Meng, Living the Land
Storia di una famiglia di agricoltori nella Cina di una trentina di anni fa, Living the Land, secondo e promettente film del regista cinese Huo Meng, brilla; racconta la rudezza della realtà rurale di un paese in via di inarrestabile trasformazione. Malgrado qualche incertezza nel cedere l’immagine agli attori, il film è un affresco sul paesaggio, a tratti di impressionante potenza formale. Tanto le inquadrature quanto il ritmo scelto per narrare la fatica dell’agricoltura lasciano una profonda traccia nella memoria e fanno sperare che sia arrivato sulla scena un nuovo regista cinese di grande spessore.
Radu Jude, Kontinental ’25
In un’epoca senza grandi autori, la semplice presenza a un festival porta Radu Jude, il grande regista romeno, a sbaragliare la concorrenza e incantare i rari cinéphiles rimasti. Dopo aver vinto l’Orso d’oro nel 2021 con Sesso sfortunato o follie porno e aver ricevuto il Gran premio della giuria a Locarno con Do Not Expect Too Much from the End of the World, Radu Jude torna con un premio, l’Orso d’argento per miglior sceneggiatura, anche dall’ultima Berlinale con Kontinental ’25. Si trattava probabilmente, ancora una volta, del miglior film in concorso. Un disincantato, quanto rigorosissimo e caustico, apologo sulla morte della politica e sulla condizione dell’essere umano nella feroce contemporaneità del neocapitalismo. Ambientato ancora una volta in Romania, parla a cuori e intelligenze del mondo intero.

Se ne parlerà
Vivian Qu, Girls on Wire
Girls on Wire di Vivian Qu è sicuramente un film interessante sui traumi della Cina contemporanea, condotto con brio dalla regista Vivian Qu, sino a incrociare gli stereotipi di genere e così a farsi apparentemente catalogare come un thriller che talvolta flirta col film d’orrore. Curiosamente, in questa settantacinquesima edizione della Berlinale, però, pochi lo hanno interpretato per quello che è: grazie una sceneggiatura volontariamente elaborata quasi all’eccesso, una sofisticata mise en abyme dei generi cinematografici commerciali che trascina con sé, nella sua traiettoria narrativa, il portato dell’esperienza delle due protagoniste, due cugine meravigliosamente interpretate da Liu Haocun e Wen Qi. Vivian Qu si conferma una delle più interessanti decostruttrici del cinema asiatico contemporaneo, capace di restare nel film di genere, ma di operare, attraverso vertiginose sterzate nella trama, una vera critica sociale. Ecco così rivelarsi a noi un’analisi spietata della Cina contemporanea e in parallelo, attraverso le vicissitudini di una delle protagoniste, le difficili condizioni di creazione per chi, dai mestieri più umili, contribuisce all’esistenza di un film. Una metafora della società tutta assai riuscita.
Bong Joon-ho, Mickey 17
Rieccoci in compagnia del sempre discutibile e discusso Bong Joon-ho che, dopo l’oscar con Parasite, si concede il piacere del film da botteghino con questo Mickey 17 che, non senza accenni di satira politica e accenti di realtà virtuale, sconfina nel cinema di fantascienza. Dopo lo splendido Snowpiercer, ancora una pellicola che farà discutere. Girato con grande maestria e una vera sensibilità per il fantastico, il film si vuole – nonostante il periodo storico non tanto propizio – come un film di pura evasione. Interpretato da Robert Pattinson, ci porta in un mondo, forse vicino, in cui gli esseri umani verranno clonati in 3D e costantemente aggiornati nel loro profilo psicologico. Il film passa in un lampo, ma una domanda filosofica e artistica cova dietro a una certa fluidità della trama: spostando i confini della morte, come è possibile ripensare tanto umanamente che cinematograficamente il lieto fine?