Mio padre è il filtro attraverso cui, volente o nolente, leggo ogni cosa del mondo. Provo ripetutamente a negarlo a me stessa, ma non sono ancora riuscita a esorcizzare la sua presenza.
Da quando ho memoria di libri e film ho sempre ricercato esempi fittizi in cui potermi rivedere (rifiutando programmaticamente i suoi consigli bibliografici, i quali, ora, fanno parte della letteratura che più amo percorrere e ripercorrere) e in cui poter individuare una corrispondenza di sensi e significati tra l’amore incondizionato e l’odio più viscerale. Letteratura e cinema ne sono pieni, sì, ma nessun film prima dell’insospettabile Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini era riuscito per me a evocare più fantasmi, e a calpestare più tentativi di liberarsene. Se penso all’ultimo e acclamato film di Comencini, non mi viene subito in mente la magia del cinema, ma penso a due emozioni fondamentali: disagio e paura, che culminano, solo alla fine, in una bellezza accecante; bellezza, poi, mortifera, poiché il film si chiude raccontando la dipartita di Luigi Comencini, interpretato da Fabrizio Gifuni, e la conseguente – e forse prevedibile – rinascita di sua figlia Francesca, prima imprigionata nel mostro (la balena) della sua infanzia e poi adolescenza.
Vedendolo, a un certo punto mi trovavo nello stesso corridoio buio attraversato nervosamente da Romana Maggiora Vergano, nei panni di Francesca Comencini, mentre tornava a casa ogni sera, dopo un concerto, una seduta di giardinaggio, di scultura, una sessione di confronto collettivo; i graffi sulle sue braccia erano anche i miei, così come le lacrime che rigavano il suo volto all’ennesimo, ma gentile e educatissimo, insulto del padre. Siamo tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Il padre lamenta quanto la figlia si stia pericolosamente omologando a seconda del fidanzato di turno; “Praticamente sono una cretina” gli risponde Francesca, dopo averne ascoltato l’arringa. Nel film, questo momento
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