Due settimane fa mi sono trasferita per lavoro e mi sono sentita leggera come non capitava da almeno un paio d’anni, ovvero dall’ultima volta che ero andata a vivere altrove con l’occasione di un nuovo lavoro. Essere lontana dalla mia città non mi provoca gli stessi sintomi che accusano i miei amici quando vanno via per un po’: la stanchezza, lo stress, l’ansia da prestazione, la solitudine sono sensazioni che avverto lontane. Ogni volta che me ne vado mi domando perché non lo faccio più spesso, perché me ne sto a casa a posticipare consegne, ingoiare rospi e inventare scuse invece di impegnarmi al massimo per fare l’unica cosa che mi guarisce dalla malinconia e dall’angoscia: muovermi. Non soffocare tra le lenzuola mezz’ora di troppo invece di alzarmi, non bere ogni sera un bicchiere di vino crogiolandomi nell’autocommiserazione, non inseguire rapporti finiti, dolorosi e cuciti su misura per non sentirmi mai amata. Solo andare via

Essere altrove significa innanzitutto avere il dovere morale di inserire un cuscinetto isolante tra le proprie rogne e la quotidianità, poter lasciare andare le cose che non hanno funzionato e quelle che potevano andare meglio, non pensare più con le parole con cui sei portato a etichettare i doveri di ogni giorno. Ti costringe a prenderti cura di te senza rendertene conto. Ed è come parlare una nuova lingua, perché nel tentativo di farsi capire si è portati a scoprire lati nuovi di sé. Non necessariamente migliori, ma abbastanza insoliti da avere voglia di conoscerli e coltivarli, finendo per farsi bene con strategie prima insospettabili.   

Ma qualcuno è mai tornato dalla vita adulta? E, psichiatra a parte, quanto costa farlo? 

Parlare di sé serve a prendere pubblicamente le distanze da una versione di noi che vogliamo lasciarci alle spalle, accertandoci e rendendo noto a tutti di aver compreso accuratamente i nostri errori prima di continuare il percorso. È rassicurante, piacevole, non fa niente se ci si sente un po’ disonesti quando ci si autodescrive diversi. Certo, questo discorso presuppone la certezza che gli errori abbiano una dimora stabile e non siano capaci di inseguirci. O forse conviene fidarsi del fatto che la vita è composta di fasi e che quella dell’autoindulgenza e del narcisismo prima o poi finisce. Bisogna cambiare, evolvere, diventare funzionali rispettando i parametri della vita adulta: pagare le bollette in tempo, non piangere in pubblico, chiudere sempre la porta quando si usa il bagno, non macchiarsi i denti con il rossetto, non parlare mai troppo intimamente di sé, non dare confidenza agli sconosciuti. Ma qualcuno è mai tornato dalla vita adulta? E, psichiatra a parte, quanto costa farlo? 

Il mio anno di riposo e oblio (Feltrinelli, trad. di Gioia Guerzioni, 2019) di Otessa Moshfegh parla esattamente di questo: il prezzo del rifiuto della vita adulta, o delle conseguenze

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