Francesco Anselmi inizia a parlare ancor prima che gli venga posta una domanda. C’è un’urgenza nei suoi gesti, nel ritmo delle parole, nel bisogno di raccontare quello che le sue fotografie hanno già trattenuto. Dà avvio a Borderlands (Kehrer, 2024) nel 2017 con l’intento di sovvertire la narrazione dominante sul confine tra Stati Uniti e Messico. Un confine troppo spesso raccontato attraverso la lente dell’emergenza e strumentalizzato dalla propaganda populista per ridurre l’immigrazione a crisi e minaccia. Se le terre di confine vengono spesso rappresentate come linee nette che separano mondi opposti, nella realtà sono zone porose, territori dove le identità si mescolano. Per questo, Anselmi ha scelto di lavorare esclusivamente sul lato americano, meno esplorato rispetto a quello messicano, spesso considerato più esotico. Il progetto prende forma con un primo viaggio lungo l’intero confine, da Brownsville, in Texas, a San Diego, in California. Seguono altri tre viaggi, durante i quali entra in contatto con i protagonisti della cronaca, narcotrafficanti, migranti, milizie sorte per contrastare l’immigrazione clandestina, e coyotes, figure legate ai cartelli che facilitano l’attraversamento del Rio Grande. Sceglie di ritrarli in posa, sottraendoli al ruolo imposto dai media, immersi nel paesaggio spoglio delle borderlands, un territorio che li ha plasmati e che, nei suoi vuoti e nelle sue polveri, racconta le loro storie più di quanto facciano le notizie.

S. M.: Il muro che separa gli Stati Uniti dal Messico non è solo una barriera fisica, ma una soglia simbolica, un confine che divide mondi opposti, il lecito dall’illecito, l’inclusione dall’esclusione, il bene dal male. Nel tuo libro Borderlands, però, il confine si scompone, sfuma, diventa una zona grigia dove la separazione non è mai del tutto netta. Cosa significa stare da una parte o dall’altra? E chi decide dove finisce l’una e inizia l’altra?


F. A.: Il muro è stato il fulcro della propaganda di Donald Trump sin dal suo primo mandato, anche se, nella realtà, ne ha costruiti solo 70 km. Un dato che contrasta con la percezione diffusa, molte persone sono convinte che l’intera barriera sia opera sua, nonostante un terzo del confine fosse già stato edificato dalle amministrazioni precedenti, da Clinton a Bush fino a Obama. Questo dimostra quanto una narrazione ben congegnata possa persistere indipendentemente dalla veridicità dei fatti. Il muro è stato presentato come un simbolo, il confine tra bianco e nero, tra bene e male. Ma la realtà è ben diversa, il confine tra Stati Uniti e Messico è una zona di intrecci e commistioni, dove le famiglie hanno vissuto e si sono mescolate per generazioni. Lungo la frontiera, la popolazione è per il 92% di origine latina, e la cultura Tex-Mexne è la testimonianza più evidente. Pensare di separare tutto questo con un muro è un’illusione, le culture non si dividono con il cemento, si intrecciano e si trasformano.

S. M.: Nelle tue fotografie emerge una fascinazione per la maestosità del paesaggio, per quella natura incontaminata che si estende senza limiti, in cui il confine si insinua come una ferita, una linea innaturale. Cosa significa per te fotografare il confine dentro un paesaggio che, per sua natura, non dovrebbe averne?

F. A.: Il confine non è solo una linea politica, ma un ecosistema plasmato dalle persone che lo abitano e dalle storie di passaggio che lo attraversano da sempre. Un esempio emblematico è la grande riserva nativa che si estende tra Stati Uniti e Messico, oggi spezzata dal muro. Per secoli, le popolazioni indigene hanno attraversato liberamente questi territori, seguendo l’acqua e i cicli della natura, molto prima che esistessero frontiere. La costruzione della barriera non ha solo separato comunità, ma ha anche avuto un impatto devastante sulla fauna locale, molte specie migravano lungo questa linea per raggiungere le pozze d’acqua. Qui, tutto parla di connessione, non di separazione, una storia che ha bisogno di spazi aperti per continuare a esistere. Allo stesso tempo, il confine è anche un punto critico per il traffico di droga e altre attività illegali. Il controllo è necessario, oggi più che mai, ma la vera sfida sta nel trovare un equilibrio tra sicurezza e il rispetto di un territorio che non è mai stato pensato per essere diviso.

Abandoned copper mine. Bisbee, Arizona, November 2017

S. M.:Nella prima immagine, un raggio di luce attraversa il fotogramma come una lama, imponendo la sua presenza. Nella seconda, invece, quel bianco si dissolve, scivola nel fondo della valle, inghiottito da un lago nero. Se la luce che scende dal cielo è un messaggio di apertura e speranza, mentre l’acqua è simbolo delle lacrime dell’uomo, quale dolore sta raccontando questo paesaggio?

F. A.: Non è solo dolore… è un paesaggio vibrante, colmo di vita. Le borderlands racchiudono tutta la varietà dell’esistenza, ma le politiche applicate a queste terre di confine le stanno trasformando in luoghi di morte. Qui, le persone intraprendono viaggi disumani, affrontando il deserto con il rischio di perdersi per sempre. Negli ultimi vent’anni, sul lato americano, si contano oltre seimila vittime, un cimitero a cielo aperto.

S. M.: Cosa mi dici della luce e di quel lago nero?

F. A.: È una tua interpretazione, e ci sta assolutamente. Anch’io la vedo un po’ così, due poli in tensione. Non so se hai mai letto i libri di Castaneda; parlano di un esoterismo del deserto, una dimensione quasi impalpabile che si avverte quando si trascorre molto tempo in quei luoghi. È qualcosa che si respira, che permea l’aria e la percezione stessa dello spazio.

Border fence. San Diego, California, April 2017
Abandoned van. Organ Pipe Cactus National Monument, Arizona, April 2017

S. M.: A pagina 18, il muro è una linea rigida che

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