“Com’è enorme la vita, ci si perde dappertutto.” La frase di Guerra di Louis-Ferdinand Céline che apre Parthenope chiarisce, come meglio non si potrebbe, l’ambizione del film di Paolo Sorrentino. Raccontare una vita, quella della protagonista eponima (interpretata da Celeste Dalla Porta e da Stefania Sandrelli, a seconda dell’età), che si intreccia con la storia di Napoli dal 1950 a oggi. Un orizzonte più vasto dell’autobiografismo di È stata la mano di Dio, l’adozione di un inedito (per il regista) punto di vista femminile (anche se lo sguardo è sempre maschile). Ricordi, rimpianti, tragedie, amori infelici e incorrisposti bilanciano i successi professionali. Con l’aggiunta di un ambiguo incesto, di un suicidio, di un aborto clandestino e di una divagazione saffica tanto per gradire. Un menu adeguato, anzi omologato ai gusti odierni, e che sulla carta sembra perfetto per conquistare in sala il pubblico che è latitato da È stata la mano di Dio; in sintonia, inoltre, con l’immagine di italianità che richiede il mercato internazionale nell’epoca di L’amica geniale. Un cinema forse un po’ troppo caotico, specie per lo spettatore non italiano, ma un cinema enorme, in cui ci si perde. Solo che la profondità abissale (evocata da un manifesto che non corrisponde a nessuna immagine del film) non è che un programma, un’intenzione, un’illusione, una favola che si raccontano gli esegeti e i fan. Innanzitutto perché gli ingredienti sono scontati, insapori, o erano rancidi già in partenza; e dalla loro combinazione non nasce molto.

Sorrentino sa anche che il troppo stroppia: e quando le cose rischierebbero di diventare troppo complesse e pesanti, che cosa fa? Per riacchiappare lo spettatore, costruisce intere sequenze su canzoni nazionalpopolari

Guardiamo il film da vicino. Inizia con un’evocazione del finale di E la nave va (al posto del rinoceronte, sulla zattera, c’è una specie di carro funebre). L’eterno fellinismo di Sorrentino, la galleria di volti guerci e sdentati, di corpi deformi. È possibile

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