A Patrizia Cavalli è toccato un destino non meno beffardo del suo carattere. Presso un certo pubblico è diventata un mito, quasi una Merini della generazione da TV delle ragazze. Un altro pubblico invece, quello di una poesia che si assegna da sé la patente di “sperimentale”, la disprezza apertamente o sottovoce; e i suoi letterati di riferimento accettano di schedarne l’opera soltanto perché la massa critica di testimonianze accumulate nei decenni impedisce d’ignorarla. Entrambe le fazioni, mi sembra, tradiscono così l’identità della poeta – o della poetessa Cavalli, potrei dire per far dispetto al suo spiritello ancora aleggiante su di noi, dato che la sua insistenza sul maschile di ascendenza morantiana è una spia del fatto che nemmeno lei voleva e poteva vedersi senza trucco.
Cogliendo l’occasione offerta da Il mio felice niente, l’antologia curata ora per Einaudi da Emanuele Dattilo, proviamo quindi a correggere queste immagini corrive. Intanto, non sarà inutile ricordare alcuni dati elementari. Al centro delle liriche di Patrizia Cavalli c’è spesso il racconto sarcastico e dolente di un amore lesbico, che in realtà è soprattutto racconto di un disamore: dei modi in cui un io volubile, implacabilmente raziocinante e patologicamente meteoropatico, vede cambiare di continuo i suoi sentimenti per uno scherzo dei nervi o del pensiero. A questo Amore che innalza e umilia come un dio, o che in termini più domestici si trasforma da “miele” in “raffreddore”, si aggiunge poi una serie di motivi ricorrenti. C’è il dibattito tra Corpo e Anima, di primitiva scuola umbra. C’è lo sfondo di piazze e mercati, tra Roma e una sfaccendata provincia centroitaliana così anticamente bella da avere dimenticato la sua bellezza. C’è la gioia di muoversi anonimi e rapaci su questo sfondo. E c’è l’ironica disinvoltura di chi, descrivendo tutto ciò, mima o parodia un immaginario frammento alessandrino.
Nelle raccolte di Cavalli la musica di Penna si ritrova un po’ ovunque, e a volte spiccano debiti evidenti fino alla quasi citazione
Basta questo elenco, credo, a riassumere le analogie tra Cavalli e Sandro Penna. Come in Penna, anche in lei le quartine epigrammatiche, le canzonette o le più lunghe strofe sonnambuliche, oscillanti intorno a un’archetipica e ormai consumata forma chiusa, si reggono su una musica leggera distorta qua e là da inserti prosastici, da sapienti sprezzature che le impediscono di diventare troppo piatta, o da frane metriche che corrispondono a frane emotive (molti gli ipermetri e gli ipometri esibiti come fossero versi regolari e magari esposti a più pronunce possibili, ad esempio di endecasillabo con coda o di doppio settenario). Oltre che nel preservare la grazia dal grazioso, Cavalli dimostra poi un’abilità penniana nel ricondurre alla stessa sostanza verbale le epifanie luminose e la routine più desolante, il lirismo più delicato e le spavalde sfide erotiche di chi mulina donchisciottescamente a vuoto le proprie armi.
Ma nelle raccolte di Cavalli la musica di Penna si ritrova un po’ ovunque, e a volte spiccano debiti evidenti fino alla quasi citazione. «In un punto del loro acuto svolgersi / s’empivano di verde gli occhi del gatto, / specchio brevissimo e attento / degli alberi e dell’erba. E ripeteva il gesto / senza saperne lo splendore» scrive la poeta, o poetessa, nella sua prima raccolta del 1974: e proprio questo “svolgersi” del ritmo, insieme al tema della bellezza integra perché ignara di sé, evoca subito i modi e lo sguardo del suo illustre conterraneo. Ancora in Le mie poesie non cambieranno il mondo, i versi che dicono «È vero qualche volta / ti assenti quasi ti addormenti: / come un bambino svogliato / che guarda il soffitto / quando viene sgridato» ricordano un celebre bambino di Penna (Oh non ti dare arie…) che regalmente si annoia a una festa. Un quarto di secolo più tardi, in Sempre aperto teatro, ci s’imbatte nel finale di un testo che sembra riecheggiarne uno mirabile dello stesso poeta, Ero solo e seduto. La mia storia…, in cui chiese e campane incerte, «senza nome», congiurano ad avvolgere un’apparizione erotica inscindibile dal sogno che suscita: «Ma la vile indolenza del mio cuore / capace solo di superstizione / subito chiuse quell’empito in un nome / e lo spazioso caldo senza nome / prese la forma e il gelido colore / dell’ultimo recluso suo rifugio. / E mi trovai nel buio dell’amore» traduce Cavalli mantenendo il dondolio onirico e oracolare del modello. Ma nella stessa raccolta si trovano altri “segni chiari”. Si veda un incipit come «La stagione mi invita? Che stagione / è questa che mi invita? Ero sparita / nella piazza conclusa del mercato. / Il mercato scintilla ogni mattina», col suo lezioso e svagato rimescolio degli stessi termini, e la finzione dello stupore nello stupore vero; o ci si soffermi sul finale dello stesso testo, in cui dopo una descrizione diffusa del paesaggio e dell’interiorità si tirano gnomicamente le somme: «Ero in questa mattina e mi spargevo, / lo sguardo non bugiardo o veritiero / vedevo insieme felicità e rovina». Né c’è bisogno d’insistere sulla comparsa improvvisa delle ragazze, magari adorabilmente smarrite mentre si tolgono gli occhiali, o sulla fenomenologia parastilnovista di sbiancamenti e cedimenti nel brulichio dell’Urbe. Anche in Cavalli, poi, ogni ars poetica è un’arte di vita, e viceversa: «Giunti a una certa molto adulta età / non ci si può mostrare disperati, / sono davvero troppe le ragioni. / Si corre il rischio del naturalismo». Infine, come in Penna, tutto si riassume qua e là in un unico verso che sembra il capitello intatto di un antico tempio in rovina, e a volte anche in questi casi l’eco è palese: l’«io sono certamente un’immortale» di Pigre divinità e pigra sorte (2006) varia l’endecasillabo penniano di Indifeso fervore. Brilla sul ciglio…, in cui con una sentenza universalistica, e più fortemente staccata dal precedente quadretto mondano, si afferma che «Ognuno è nel suo cuore un immortale».
Ma come al solito, le somiglianze aiutano a vedere meglio le differenze. Che potremmo sintetizzare così: in genere, Cavalli distingue ciò che nel Penna supremo e sibillino resta fuso: tristezza e letizia, ricordo e presente. Su un altro piano, lei non sa arrendersi senza resistenza alla penniana mostruosità del “niente”, così come non sa consegnarsi al “Nessuno” dell’amata Dickinson: è troppo preoccupata della propria identità per poter entrare nel regno di chi si disfa una volta per sempre della volgarità di essere qualcuno, di “contare”.
Come alla sua patrona Morante, a Cavalli piace suggerire che tutto è uno scherzo; ma come Morante, del tutto non ci crede. Si ferma un gradino prima della mistica e della perdizione, che nella modernità si assomigliano come due gocce d’acqua: e su quel gradino lì sotto ci si mostra mentre si dibatte tra tentazioni che conosciamo bene – magnifica nostra simile, e sorella. Cavalli però non è disposta a ritrarsi con l’integrità di un Saba, che si rivela vulnerabile e disarmato, davvero fraterno nell’attraversare goffamente la durata prosaica dell’esistenza. Così, ancora con l’atteggiamento di Morante, finisce in parte per mascherarsi e avvolgersi in una sua fiaba altrimenti zingaresca o idalgosa, anche lei ipnotizzata dal proprio narcisismo. Solo che a differenza di Morante questa fiaba non può narrarla – forse perché sotto sotto, alla sua indolenza astuta, la monumentalità romanzesca morantiana sembra pure un po’ una gaffe. Si potrebbe dire allora, cavalleggiando, che se Penna è l’idolo posto sull’altare dalla demiurga della Storia, Patrizia è il gatto che sta accucciato ai piedi di Elsa. Ma di nuovo, è vero solo in parte. Perché come tutti noi, in parte Cavalli è stata invece proprio ciò che non voleva essere: una scrittrice diligente, scolasticamente brava, che si costruisce e proietta di sé un’immagine un tantino artificiosa. Come Morante orecchia le mistiche e corteggia l’anarchia dei nullatenenti, ma non può abbandonare la sua pesanteur, il suo travestimento bovaristico e la sua prassi machiavellica, così Cavalli, che imita l’arrendevolezza penniana perché sente che un po’ le appartiene, mantiene tuttavia rispetto a Penna un tono assai più medio. È questa medietà, del resto, che le permette di svolgere il suo razionalismo musicale, di montare quelle costruzioni sintattiche in cui a volte la principale si perde (e per merito della suggestione non si torna indietro a cercarla), ma che di frequente si fissano in una impeccabile clarté settecentesca, perfino pariniana, col loro uniforme quanto intelligente ciuff ciuff di versi-vagoncini.
Davanti a questa vena che tenta di catturare il disagio dei sensi nel tormentoso virtuosismo del concetto («il rovello è architettura») non si pensa più a Penna ma a Auden (e tra i due registri, epifanico e saggistico, si colloca quello aforistico, dove il lampo e la ragione, Penna e Auden si fondono). L’autore di Un altro tempo, si ricorderà, è il poeta secondo cui «Poetry makes nothing happen»: non fa succedere nulla, la poesia, semplicemente succede – come la vita, che non si progetta né si può mettere da parte ma soltanto cogliere. «Le mie poesie non cambieranno il mondo», parafrasa la giovane Cavalli guascona, con lo sguardo sempre concentrato sull’«io singolare proprio mio». Auden significa saggio in versi oraziano, e insieme teatro: il luogo degli umori e dello spirito loico, della varietà del mondo e dell’unicità dei caratteri – per dirla ancora con due sineddochi, Shakespeare e Molière, che Cavalli ha talentuosamente tradotto. E la lezione di tutti questi autori sembra riaffiorare in certi suoi ritratti memorabili, arrembanti: si veda ad esempio, in Sempre aperto teatro, Sei come il Tevere sotto il ponte Cestio…, con il bisticcio finale delle rime interne che, come altrove le assonanze, si stringono a dichiarare sia l’ossessivo piétiner sur place sia la soddisfatta capitalizzazione delle risorse percettive.
Non meno di Morante, Cavalli si strugge perché sa di volere ciò che non si può volere ma solo accettare, essere, ossia la vita dei gigli dei campi e degli uccelli del cielo
La maniera con cui l’autrice amministra questo eclettismo conferma che è immersa nella ‘vita media’, in tutte le sue sue lusinghe private e pubbliche, e in quei suoi progetti di autoaffermazione che stenta a separare da un potere più intimo e intermittente, il potere della seduzione erotica. Non meno di Morante, Cavalli si strugge perché sa di volere ciò che non si può volere ma solo accettare, essere, ossia la vita dei gigli dei campi e degli uccelli del cielo, il Caso che svuota l’esistenza di programmi e immette in un’atmosfera stracciona e lussuosa, radicalmente antiborghese. L’aneddoto secondo cui la sua poesia sarebbe nata per rispondere a una delle caratteristiche domande inquisitorie di Elsa Morante ha un valore simbolico anche sotto questa prospettiva. Per Cavalli, la poesia è tra l’altro un alibi per difendere il suo niente – felice e infelice – evitando troppe indagini sociali su di sé, e i relativi doveri feriali; ma in questo niente è impiantata anche una piccola, attivissima industria artigiana, gestita secondo una studiata regia di presenze-assenze che nella dissoluzione della società letteraria, afferrata dalla giovane autrice per la coda, le ha permesso di assumere subito un’identità leggendaria.
Dato il contesto, la scelta si è rivelata decisiva. Si trattava infatti di difendersi, difendendo insieme la propria opera, prima di tutto dai propri coetanei, ovvero da quella generazione in cui la poesia italiana più visibile ha divorziato dalla Storia e dalla critica, lasciandosi divorare da velleità e consociativismi. Oggi che la generazione del ’68 ha compiuto la sua parabola, a guardare il suo panorama un po’ deprimente si direbbe che i poeticamente sopravvissuti, salvo eccezioni, appartengano a due categorie: che siano cioè o autori che hanno molto peccato e abiurato per ritrovare il nucleo originario della loro ispirazione (ad esempio Giorgio Manacorda) o autori che sono avanzati in una nube di torpore scaltramente autoprocurato, scrivendo per così dire al cinque per cento (Carlo Bordini, e appunto Patrizia Cavalli). Questi autori hanno un profilo credibile proprio perché si sono allontanati da una parodia di Storia ormai irreale: quella che ha indotto altri, ossia gli onnipresenti gestori dei centri accademico-editorial-festivalieri, a stilizzarsi precocemente per farsi riconoscere dal sempre più corporativo “pubblico della poesia”, e a sostituire così l’identità autentica con una griffe.
Dopo la garanzia del battesimo autorevole e precoce, la volontà progettuale di Cavalli si è invece concentrata nel tentativo di annullare o almeno di contraddire sé stessa. Grazie a questa astuzia – e all’auscultazione fedele di un io forse vocato, come diceva Garboli di Soldati, a parlare come fosse noto a tutti anche quando ancora non lo era – la poeta ha sviluppato una lirica la cui monotonia screziata è l’esatto opposto delle stilizzazioni a freddo che i coetanei commendatori si sono costruiti con sforzata coerenza, non di rado cambiando l’etichetta di superficie appena sentivano cambiare l’atmosfera della società letteraria circostante.
Cavalli appare capricciosa perfino nei momenti di relativa stabilità, e trasforma subito la calma in languore
Le escursioni di Cavalli sono connaturate al suo pensiero emotivo e alla sua duttilità formale. Se Sempre aperto teatro (1999) sembrava una replica in tono minore o a tratti un’esplicitazione un po’ riduttiva dell’esordio, in Pigre divinità e pigra sortepotremmo leggere una summa che spesso ritrova le misure piene del Cielo (1981), per contaminarle con la tendenza al poemetto già rivelatasi nell’Io singolare proprio mio (1992). Ma le domande ironiche e accorate che animano i versi girano sempre intorno agli stessi motivi di fondo. Cavalli, insomma, ha continuato a rimanere sé stessa: e siccome non è uno scrittore noioso, non è noiosa nemmeno la sua noncurante fedeltà, o come si è detto la sua monotonia. A questa parola siamo abituati a dare un significato negativo, anche in estetica. Eppure artisti notevoli e grandi l’hanno eletta a musa. La loro opera si gioca tutta su pochissimi caratteri tematici e formali. Restano inchiodati a un’ossessione, oscillano tra i medesimi poli. E confermano che se il nocciolo poetico è solido, inconfutabile come un’impronta digitale, una certa serialità può essere feconda. Si pensi a Giorgio Morandi, o al citato Penna. Nella poesia contemporanea italiana si contano almeno tre casi rilevanti di monotonia: oltre a Cavalli, Umberto Fiori e Anna Maria Carpi, due autori che tentano di far coincidere il verso con la frase del parlato, e che insistono sul motivo paradossalmente esistenzialista di un io smanioso di abbandonare la propria identità precaria, cioè di fissarsi in un ruolo, in un mondo in cui ogni soggetto è già fungibile e “anonimo”. Ma Carpi è legata a Cavalli anche dalla messa in scena di un io infantile, perennemente assetato di attenzioni, che su un set casalingo o urbano interroga i classici e le divinità con la disinvoltura con cui si consulta un oroscopo. Tutti e tre i poeti inventano uno spazio in senso lato teatrale. Nelle due donne, però, è meno astratto. Per entrambe, stare sulla scena significa anche provare a garantirsi contro il niente infelice, cioè contro un’angoscia senza risarcimenti. «Che la morte mi avvenga dentro un desiderio / oltrepassando un uscio» dice Cavalli nel Cielo: e al lettore di Carpi vengono in mente i versi in cui la poetessa milanese si augura una morte molieriana che coincida con la sua performance attoriale, e quindi con ciò che ha immaginato. Tuttavia, i rispettivi personaggi si esprimono in maniere molto diverse: mentre quello di Carpi dichiara anche i sentimenti più estremi in un tono lievemente depresso e interlocutorio, allineando con diligenza i suoi ritmi di madrigale quieto o di breve canzone, quello di Cavalli è sballottato tra euforia e disforia, che si riflettono in un dettato tenuto baldanzosamente sopra le righe della prosa; e se in Carpi perfino i passi più trepidi sono smorzati da un distacco quasi anaffettivo, o incanalati in una compostezza apollinea da Racine piccolo-borghese, Cavalli appare capricciosa perfino nei momenti di relativa stabilità, e trasforma subito la calma in languore.
In ogni caso, la cifra della monotonia afferma la prevalenza, su ogni istanza comune e su ogni sviluppo biografico, di una cronaca della ciclicità emotiva, ovvero del “carattere e destino”. Cavalli amministra il suo stile con la sovrana pigrizia necessaria a salvarlo da ogni cristallizzazione anche grazie a un attaccamento animale alla giornata concreta: coi suoi cambi di luce traditi dalle architetture urbane, con le sue minime commissioni da sbrigare, e con le improvvise apparizioni di una bellezza destinata a riscattare ma insieme a moltiplicare le pene di un io sempre a disagio nei suoi panni. Spiandosi tra le mura di casa o nei brevi tragitti lungo le strade cittadine, questo io sconta una continua futile agitazione – come quella di chi si volta e rivolta in un letto – misurando da «geometra perito» i confini del proprio corpo sgraziato, e maledicendo l’irreparabile distonia che non gli permette d’identificarsi con figure pronte a rivelarsi subito sgradevoli, con gruppi o folle attraenti ma invasivi. È un io esposto inerme all’influenza “astrologica” di luoghi e volti, ma soprattutto delle stagioni, delle ore diverse e incommensurabili del giorno; e in amore, è un io condannato a inventarsi sarcastici trionfi di parole da opporre alle sconfitte effettive, sul campo. Si tratta insomma di un soggetto alla mercé di ogni stimolo esterno, eppure ineluttabilmente introvertito: salvo le eccezioni che confermano con esattezza la regola, dato che un raro momento di armonia è quello in cui «Io sono dentro / e mi entra dentro il fuori».
Per questa Cavalli, il tentativo frustrato di arrivare alla fusione tra corpo e mente ha il suo compenso paradossale, cioè ancora più doloroso della pena, nel primato di un diktat fisiologico che non lascia né la materia libera di agire né lo spirito libero di alleggerirsi. Dunque anche quest’io frenetico e bloccato, che non trova un ubi consistam, raccoglie l’eredità dell’esistenzialismo in un periodo storico molto diverso da quello in cui è nato; ma visti il paesaggio e la singolarità cavalliani, sembra qui meno lontano che in Fiori o in Carpi. Non trovando limiti, la sua libertà si rovescia in coazione, e la sua coscienza in un perpetuo allarme. Una poesia molto citata del Cielo dice con didascalica chiarezza che non si esce da questa condizione, aggravata dal narcisismo di identità sempre più labili e sempre più incerte dei confini che le separano dall’Altro-da-sé: «Essere testimoni di se stessi / sempre in propria compagnia / mai lasciati soli in leggerezza / doversi ascoltare sempre / in ogni avvenimento fisico chimico / mentale, è questa la grande prova / l’espiazione, è questo il male». Come si vede, se confrontata con le autodescrizioni emotive di Penna si tratta di una poesia un po’ telefonata, al limite della platitude; eppure a suo modo ben tenuta, e di struttura tipicamente cavalliana, con quella lunga carrellata di dichiarative ritardanti che alla fine scarica la suspense sulla principale rafforzata dal dimostrativo. La tipicità riguarda anche il motivo, parafrasato in moltissimi testi. In mancanza di legami durevoli che definiscano limiti e distanze, lo specchio di Narciso è infatti indispensabile, perché altrimenti i sensi si sparpagliano, tirano il soggetto da troppe parti e rischiano di cancellarne i contorni. «Ma è il rimedio che produce il male», avvisa Cavalli. Che però, dialetticamente, non dimentica di rovesciare i termini: il male è anche l’unica espiazione a sé stesso. Per liberarsi un po’ dell’io, è dalla condanna dell’io che bisogna passare. Questo soggetto paga il fio secondo l’ordine del tempo – il problema, la hybris è insomma la sua stessa esistenza; eppure costituisce l’unico strumento a disposizione per toccare il Tutto. Ecco perché per oltrepassarlo non resta che portarlo alle estreme conseguenze: «Poco di me ricordo / io che a me sempre ho pensato. / Mi scompaio come l’oggetto / troppo a lungo guardato. / Ritornerò a dire / la mia luminosa scomparsa».
A volte il personaggio messo in scena da Cavalli immagina una sorta di compromesso, una finta risoluzione o pacificazione apparente
Di solito, però, anziché con una beatitudine estatica, l’oblio di sé confina pericolosamente con lo smarrimento. Che fare allora? A volte il personaggio messo in scena da Cavalli immagina una sorta di compromesso, una finta risoluzione o pacificazione apparente, secondo uno schema che nel nostro Novecento da Saba arriva a Fiori: si tratterebbe di riuscire a vivere finalmente «come tutti», con una compattezza non più nevrotica, ma insieme di non essere così somiglianti a questi tutti da non potersi ricavare un cantuccio di contemplazione distaccata, idealmente serena e in fondo libidinosa («Sto qui ci sono e faccio la mia parte. / Ma io neanche so cos’è questa mia parte. / Se lo sapessi / potrei almeno uscire dalla parte / e poi sciolta da me godermela in disparte»). Altre volte il sogno, come del resto in Fiori – e naturalmente in innumerevoli scrittori moderni e postmoderni – è invece più radicale, cioè ‘orientale’. Ecco da Sempre aperto teatro un testo significativo, anche per le rime e le assonanze insistite che dicono la monotonia raggiunta, almeno nell’immaginazione, da chi coincide armoniosamente con sé stesso: «Com’era dolce ieri immaginarmi albero! / Mi ero quasi in un punto radicata / e lì crescevo in lentezza sovrana. / Io ricevevo brezza e tramontana, / carezze o scuotimenti, che importava? / Non ero io a me stessa gioia né tormento, / io non potevo togliermi al mio centro, / io senza decisioni o movimento, / se mi muovevo era per il vento». Nella raccolta successiva quel vento simboleggia più chiaramente un sogno di cedevolezza, di accondiscendenza all’evaporazione, e qua e là si accoppia con le nuvole, sorta di gatti del cielo ed emblemi accettabili della propria volubilità. Ma rimane un problema: per l’essere umano, il radicamento o l’adattamento taoista al flusso è un traguardo disumano, dato che coincide o con la fine in cui tutto si placa o con la condizione degli dèi. «Eternità e morte insieme mi minacciano: / nessuna delle due conosco, / nessuna delle due conoscerò», constata la Cavalli ventenne; e trent’anni più tardi, nella poesia scritta alla scomparsa di Alice Ceresa, afferma che essere in vita “non è altro / che il lusso di un ritardo, restare / nel possibile sospesi tra il poco / e il troppo, ma sempre fuori posto, / sentendo che si può, / che si potrebbe, in un fresco presente / immaginato, pascolo ricco / che viene tralasciato».
L’essere umano vivo rimpiange ciò che non è stato, spera di ritrovare un’origine fantastica in ciò che mai sarà: e il tormento cavalliano è rappresentato appunto dal tempo sospeso di questa esistenza psico-biologica sempre imperfetta, sfasata, inceppata, che si sporge in anticipo sul nulla di proiezioni ingannevoli o che resta indietro a marcire in un nido di lenzuola sfatte. La disarmonia sembra poi acuita dal fatto che se da un lato è fortissima la sensibilità di Cavalli ai processi mimetici di seduzione, dall’altro c’è in lei un’autarchica, oltre che un’asociale. Da una parte pretende il tempo o lo spazio «tutto mio», dall’altra appena lo riconquista torna ad aspirare alla «prigione»; è tentata di perdersi nella «grande luce», ma per non sciogliersi nel mare dell’essere (che si rivela magari un bicchier d’acqua) si rifugia nella penombra felina della propria stanza – e viceversa.
Il personaggio di Cavalli sguscia tra le maglie degli imperativi sociali affidandosi a inclinazioni e antipatie, a nervi, a gusti
Come si ricordava, il mezzo di contrasto che evidenzia le sue oscillazioni è pennianamente l’eros. Il quale, sostiene Cavalli, non è un sentimento (sentimento è ciò che si condivide con gli altri, è una “credenza” di relativa stabilità) ma per metà un «ossessivo ragionare» che dell’amato fa un secondo sé stesso, di continuo imparato a memoria e poi dissolto, e per metà una pura percezione, un umore o istinto. E così si torna alla dialettica Penna-Auden, o meglio epifania-razionalismo. Non solo nell’amore in senso stretto, ma in tutto ciò di cui fa esperienza (e di nulla si fa esperienza senza amore), il personaggio di Cavalli sguscia tra le maglie degli imperativi sociali affidandosi a inclinazioni e antipatie, a nervi, a gusti; e d’altra parte, nel giudicare e giudicarsi, la sua ragione sottilmente avvocatesca rimane sempre su di giri. Le più sottili circonvoluzioni del pensiero urtano infatti contro una realtà opaca o chiara all’eccesso; e il razionalismo più nitido non sa dare ragione delle impercettibili eppur determinanti ricombinazioni di atomi, e dei conseguenti cambi d’atmosfera, che si proiettano dalle dimensioni cosmiche a quelle neurovegetative.
«Duro intelligere e morbido sentire, / il peggio che ci possa capitare» recita un distico che può fare da epigrafe al ritratto complessivo del personaggio cavalliano. Si capisce quindi che, per strappare qualche momentanea tregua a questo doppio tormento, Cavalli provi a recitare la dilapidazione di sé, a raggiungere o mimare una specie di ricettivo sopore dei tempi morti, a scavarsi una tana in pause impreviste di durata indefinibile: intervalli di «lusso sospeso» dove «s’insedia maestoso / ma arrendevole il possibile», e che non sono «nient’altro che preghiera», come dice nella raccolta del 2006 una caratteristica poesia un po’ a imbuto e un po’ sfrangiata, dove i versi gonfiano il testo con una suspense concettosa, e creano il consueto effetto di smottamento per far posto alla pointe conclusiva. Sempre in Pigre divinità e pigra sorte si legge anche l’altra faccia di questa preghiera: «io non voglio / essere fabbrica della fortuna / mia, vile virtù operaia che / mi annoia. Avevo altre ambizioni, sognavo / altre giustizie, altre armonie: ripulse / superiori, predilezioni oscure, / d’immeritati amori regalìe» vi dichiara l’io cavalliano: e conferma così che il suo unico senso del sacro sta in un sogno in cui sapienza, perdizione ed estetismo esibizionistico si distinguono a stento. Il fatto è che, si ribadisce, ogni perfezione autentica sarebbe «involontaria»: la bambina del poemetto La Guardiana – non ancora un poeta, ossia un attore – conserva la grazia di chi sa magicamente aprire le serrature più ardue solo finché è indifferente al premio e non conosce l’affaticarsi degli adulti. L’unica immortalità dei mortali, l’unica loro fulgida vittoria si trova in definitiva nello spreco, o secondo un’idea millenaria, nel punto dove la loro parte divina e la parte animale sembrano toccarsi eliminando quella umana (non a caso Cavalli, che vuol essere accarezzata e accarezzare con la clausola di poter sempre ritrarsi nel suo torpore sovrano, e prova a vivere in dormiveglia entro l’agrodolce rumore della vita, ha un rapporto speciale con i gatti). Al contrario, il «sempre voler capire» a cui pure si è dannati, l’impulso di capitalizzazione nell’intelletto e nella prassi, fa tutt’uno con la goffaggine e con la frustrazione del possesso. Perché il possesso può realizzarsi solo nell’inessenziale. Eppure, questo inessenziale coincide con l’unica distorta essenza mondana e spirituale che ci è data: è il male, facile da compiere appunto perché è volontà, progetto; laddove il bene invece è lievità, è assenza, e nasce solo se non lo si cerca. Cavalli, si direbbe, fonda il suo tentativo di ascesi da dépense su una sorta di neoplatonismo a rovescio.
Naturalmente il massimo sarebbe vedersi regalare dalla Grazia l’Amore, che sospende la gravità e immette “nell’ariosa cadenza della vita”
Naturalmente il massimo sarebbe vedersi regalare dalla Grazia l’Amore, che sospende la gravità e immette «nell’ariosa cadenza della vita». Ma succede solo in pochi attimi privilegiati. A prevalere è il rapido moto pendolare tra l’esaltazione da epifania erotica e la depressione che divora tutto appena l’epifania si rivela un miraggio, un’invenzione tirannica dell’altro. Inoltre, ad aggravare la spirale viziosa restano gli incidenti monotoni e imprevedibili del mondo e di un tempo prosaicamente meteorologico, che non possono venire elusi da nessuna ascesi, e che umiliano ogni tentativo di incarnare l’idea pura dell’Angelo o della Bestia: «esser toccata vorrei poter toccare, / ma scopro sempre che ogni mia emozione / dipende da un vicino temporale». Forse, è vero, si possono accogliere gli eventi senza schermarsi, o si può raggiungere quella percezione piena della realtà che dà gioia perfino nel dolore; e nello scompiglio dei casi esistenziali si può magari intercettare una grazia che non viene da noi ma che noi possiamo imparare a propiziare con un regolato sregolamento di tutti i voleri. Un attimo dopo, però, questi voleri ricominciano a esigere i loro diritti, a imporre la loro irrealtà seducente e avvilente, a staccarsi dalla verità dei sensi e della mente per arginare la Noia: «intatta ancora regna in me / fisiologia, e mi costringe al sogno».
Nell’opera cavalliana questo sogno, o peripezia del desiderio e della frustrazione, riesce a riprodursi anche in uno spazio minimo. Fin dagli esordi, Cavalli non vede soltanto il “niente” nell’avventura della vita quotidiana: vede soprattutto, nel niente della vita quotidiana, l’avventura che più la riguarda. Emblematico il tema dell’attraversamento della casa di notte, appunto per necessità fisiologiche: «Quante tentazioni attraverso / nel percorso tra la camera / e la cucina, tra la cucina / e il cesso. Una macchia / sul muro, un pezzo di carta / caduto in terra, un bicchiere d’acqua, / un guardar dalla finestra, / ciao alla vicina, / una carezza alla gattina. / Così dimentico sempre / l’idea principale, mi perdo / per strada, mi scompongo / giorno per giorno ed è vano / tentare qualsiasi ritorno». Qualcosa di simile, specie dal Cielo in poi, avviene tra le cupole e i vicoli di una Roma così degradata da non avere più nemmeno il fascino della decadenza, ma che pure sa ancora distrarre con un «sospetto di paradiso», e trasformare il soggetto che valuta le sue possibilità d’azione in un attore dimentico del suo status, pronto a perdersi nelle speranze di miracolo e nei terrori che via via lo abbagliano e lo atterrano. E a volte, lo si è accennato, alla caduta esistenziale corrisponde una calcolata caduta del ritmo o della lingua: in un’altra poesia del Cielo, per esempio, la «consonanza» col creato si rompe perché «vivendo in città c’è sempre / qua e là una qualche improvvisa puzza / di fritto che ti rimanda a casa».
Ma nella Cavalli matura emerge un paesaggio più “arioso”, un’erbetta da sommità del Purgatorio. Affiora una lode creaturale che ancora, per comodità, potremmo dire umbra; o la rappresentazione, se non della saggezza, di una stanchezza che almeno ogni tanto riconcilia col mondo, che aiuta a percepirsi parte del “naturale”. Anche qui, però, il rovescio è un meno di vitalità: adesso il soggetto rimpiange perfino certe ipocondrie, perché la loro mancanza implica rassegnazione. Siamo sempre a metà strada tra uno stato di pace, e l’arringa di chi vorrebbe convincersi a sentirlo. Esprime bene la situazione una poesia di Datura in cui, una volta ottenuto il trionfo sulle proiezioni incrociate dell’amore e le relative sofferenze, s’invita a non vantarsene, a non rischiare i fulmini divini, e a fingere invece «l’amore che sentivi / vero», ad adagiarsi in quel suo riflesso stanco che «forse è l’unico perfetto». In sintesi, smorzare il moto d’altalena di euforia e disforia si può solo in un vuoto costante: che per quest’io, incostantissimo felino, è difficile da sopportare senza rinnegarsi.
Comunque, nelle varie fasi dell’opera certi caratteri continuano a prevalere fino agli ultimi versi. In conclusione, ne elenco alcuni altri oltre a quelli già citati. Mi sembra importante notare, per esempio, che la sentenziosità cavalliana si fonda su una dote oggi rarissima in tutti gli ambiti della nostra cultura. Con un leggero spostamento dello sguardo, modificando appena la prospettiva comune che rende le cose a un tempo banali e inutilmente complicate, l’autrice sa metterne in luce un lato dimenticato, un contenuto di verità che la souplesse con cui è espresso fa riapparire semplice, ovvio e insieme nuovo: come quando, per riflettere sulla patria nel poemetto omonimo, comincia osservando che «se io l’avessi / non dovrei pensarci». Un secondo tratto degno di nota è la ricorrenza delle apostrofi teatrali, degli esclamativi parodicamente enfatici che servono a non scivolare sul fondo dell’apatia – il che, come in Penna, rischia di accadere ogni volta che si assenta il dio dell’amore. Ma d’altra parte questa poesia ha bisogno di rappresentare anche gli inciampi, i crolli d’umore non convertibili subito in furia, se non altro per schivare un’eccessiva rotondità stilistica: e appunto al livello dello stile, la traduzione emotiva di questi inciampi o crolli consiste spesso in quegli ipermetri che fungono da extrasistoli, o che additano la trascuratezza di un io pronto a liquidare in un gesto il ritmo e il mondo. Le rime spudoratamente ribattute, viceversa, sono figura di una testarda certezza sensibile, di una scoperta luminosa oppure di una nenia autoipnotica, cioè di un tentativo di liberarsi pregando dall’ossessione. Ancora sullo stesso piano stilistico vanno sottolineati i verbi all’imperfetto da gioco infantile (“facciamo che ero”) e i futuri tronchi, giambici, che balzano in primo piano quando Eros costringe Cavalli sul piede di guerra. E va sottolineato ancora, in certe diagnosi esistenziali alla moviola, il modo di scivolare verso l’agudeza finale con un enjambement incerto, un verso-moncone che prelude alla smorzatura della clausola o che esalta il ritmo saturo di un autentico ultimo verso destinato a sigillare il discorso. Se è poi vero che nel tempo cresce la tendenza al poemetto, è altrettanto vero che l’epigramma o il componimento di media lunghezza, costruito come un’unica sequenza, rimangono le forme prevalenti, perché Cavalli, come i padri della poesia moderna, sa bene che la scrittura in versi può ormai reggersi intera solo sulla misura breve. Rimane insomma, a conti fatti, un tetragono carattere: e se la forza dell’autrice sta nella convinzione di potersi azzerare rimanendo sé stessa, anzi di essere regale proprio non possedendo nulla e di nulla dovendo rispondere, la voce che la possiede non è revocabile né modificabile nella sostanza.
Eccoci così tornati al tema del mito, cioè all’equivoco tra il personaggio dei versi e la vita, anzi l’immagine di Patrizia Cavalli. È un tema che nella sua introduzione affronta anche Dattilo. Ma il suo mi pare un modo appena più ingegnoso, o sofistico, di arrivare allo stesso risultato mitizzante che ostenta di voler rifiutare. Il suo scritto contiene diverse osservazioni interessanti, e anche le cose risapute vi sono comunicate in genere con apprezzabile limpidezza: c’è, tra l’altro, un bel passo in cui si spiega come l’incessante dibattito interiore del personaggio cavalliano abbia esiti tecnicamente umoristici. Nel complesso però, cedendo a un tono-Trevi, Dattilo tiene un po’ troppo a riaffermare il carattere favoloso dell’autrice, che ci suggerisce emersa “da un’epoca remota”, pre-psicologica; e così troppo l’avvicina ai modelli da cui invece la distanziano i tratti che ho indicato sopra. Ma soprattutto, quel che non va è che il curatore di Il mio felice niente, forse nel timore di veder sfumare il mito, elimina i confronti concreti tra Cavalli e gli altri autori. Lo snobismo diventa poi stucchevole quando Dattilo fa il gesto di disfarsi delle definizioni eccessivamente superficiali dello stile cavalliano: gesto esibito con un’aria di superiorità indebita, dato che senza accorgersene lascia rientrare quelle definizioni dalla finestra. Proprio perché anch’io credo che non si risolva affatto il problema critico attribuendo a Cavalli una lingua “quotidiana”, “chiara” o “semplice”, e che sia davvero sbagliato (davanti a lei e a chiunque) soffermarsi solo sul lessico e non sul “movimento” sintattico-tonale dei testi, trovo altrettanto banale attribuirle, come fa Dattilo, una generica “esattezza”, del resto ricondotta subito alla presunta natura dell’essere umano da cui è espressa. Una tale definizione non è individualizzante; e serve a poco anche affermare che per la lingua di questa poesia non si dànno cose “trascurabili”, perché in generale lo si può dire di tutti gli scrittori degni del nome – mentre in un’accezione più ristretta vale per un Saba ma non per una Cavalli o un Penna, che per esprimere ciò che è prosaico hanno bisogno al contrario di farlo scintillare.
È un modo di vivere non facile da mantenere, specie in quell’ingannevole “Tempo di pace” del lungo dopoguerra in cui si è svolta l’intera esistenza della “poeta”, e in cui la mancanza di conflitti netti invitava alla superfetazione ideologica
Sarebbe più utile, lo ripeto, confrontare Patrizia Cavalli con gli scrittori temerariamente affidatisi a una “via della grazia” dalla quale non si può tornare indietro: utile, cioè, per constatare che il suo caso è diverso, misto, e che lei quella via la percorre solo a metà. Qualcosa di simile si può dire per la prosa di Raffaele La Capria. Ma a entrambi è pur capitato spesso di toccare la grazia; e anche quando hanno cantato e scritto un gradino sotto – un gradino sotto Penna, o sotto Parise – lo hanno fatto con una maestà rarissima nella letteratura italiana degli ultimi sessant’anni: confermando che ci si può riuscire solo se si ha la saggezza di mantenere un rapporto reale con sé stessi, ovvero di ritrovare in ogni cosa, anche la più astratta e lontana, la sua relazione con il nostro qui e ora. E per farlo – per stare almeno in parte nel presente – occorre rifiutare il ricatto del futuro che il culturalismo storicista (ideologico ed estetico) ci ripropone in forme sempre nuove. «Ma davvero per uscire di prigione / bisogna conoscere il legno della porta, / la lega delle sbarre, stabilire l’esatta / gradazione del colore? A diventare / così grandi esperti, si corre il rischio / che poi ci si affezioni. Se vuoi uscire / davvero di prigione, esci subito, / magari con la voce, diventa una canzone» spiega perfettamente Cavalli nell’Io singolare proprio mio. È un modo di vivere non facile da mantenere, specie in quell’ingannevole «Tempo di pace» del lungo dopoguerra in cui si è svolta l’intera esistenza della poeta, e in cui la mancanza di conflitti netti invitava alla superfetazione ideologica, infliggendo ai più sensibili il rimorso di un’esistenza mancata o informe: «Colpevoli / persino della nostra morte, che sia il corpo / a volerlo o sia il pensiero, lento o violento / è suicidio sempre. E in solitudine / non c’è morte innocente».
Noi ormai siamo entrati in un altro tempo, ma con uno spirito che non ha avuto il tempo di cambiare. Da questi versi, però, possiamo imparare almeno a non diventare schiavi zelanti di chi vuole farci credere che la nostra quotidianità, con le sue miserie e con le sue scoperte miracolose, sia meno vera di quella che ci descrivono gli Ambasciatori della Letteratura e della Teoria, i quali fingono di poter sorvolare il pianeta cogliendone l’essenza sociale o metafisica come puri spiriti, e si affannano invece come puri manager. Davanti a tanta morte provocata dai programmi di chi crede di poter controllare il mondo, Cavalli continua a ricordarci che la verità (sperimentabile solo sotto una certa luce, in una certa bella o brutta giornata, in un certo angolo di casa o di città) coincide ancora con la morte dell’intenzione.