Stamattina stavo andando in spiaggia, avevo dormito poco per il forte vento. Ah, come si guasta facilmente il tempo e, insieme al tempo, un ginocchio, una spalla, tutto. Il rumore del mare era assordante, il cielo appoggiava sull’acqua certi piccoli squarci d’azzurro tra nuvole nere. Mi premevo il cappello in testa con la sinistra, con la destra mi tenevo al corrimano della scala di legno che dalla strada porta alle dune e poi alla spiaggia. Pensavo ai fatti miei quand’ecco che tutto si è fermato: il vento, il mare, gli arbusti, il battito delle ciglia e del cuore, le rugginose vibrazioni del filo spinato che recinge le proprietà private sia a destra che a sinistra della scala. Mi sono disorientato, che succede, ero stupefatto e atterrito, forse stavo di nuovo male. In quell’attimo di immobilità l’unica cosa a muoversi è stata una figurina – non un corpo, non una piroetta di polvere, non un guizzo di luce: una presenza che è schizzata fuori dalla sabbia e nella sabbia si è rinfilata poco più in là. Ho pensato: so esattamente cos’è, ne conosco il nome anche se non ce l’ha. Dopo, il vento ha ripreso a soffiare, il mare a scaraventarsi verso riva con strisce incalzanti di spuma, il filo spinato a vibrare, gli arbusti a piegarsi come per agguantarmi e asciugarmi in fretta il sudore ghiaccio.

Pece,Frammento,Starnone

Ho progettato, in tempi ormai lontani, di impegnarmi a fondo e diventare santo. Avevo dodici anni, credo, forse tredici, e pur non sapendo niente di religione mi appassionai molto all’eventualità di fare miracoli e affrontare il martirio. Non ero ancora andato al catechismo e non avevo fatto la prima comunione: tutta colpa dei miei genitori che avevano, come diceva spesso mio padre, altri guai per la testa. La conseguenza era che delle verità salutevoli – un prete-professore aveva definito così, in sintesi, l’elenco delle prescrizioni che mi avrebbero evitato le fiamme dell’inferno, e io mi ero segnato diligentemente ‘verità salutevoli’ nel quaderno – non sapevo niente di preciso. Anzi, diciamola tutta, a me Dio, qualsiasi dio, all’epoca faceva spavento, e ancora oggi me lo fa. Tutta quella smania di vederlo nel suo fulgore non l’ho mai avuta e nemmeno – devo ammettere – capìta. Troppa luce splendente dappertutto, troppo roveto ardente, troppi portenti multicolori. Senza dire dell’onnipotenza, dell’onnipresenza, dell’onniscienza, delle furie gelose e di quel doversi inginocchiare di continuo, chiamarlo signore con la maiuscola, andare in processione cantando osanna. Se dovessi tornare a credenze di quel tipo adesso, a ottant’anni – il cervello s’è indebolito parecchio e tutto può succedere – sarei costretto a imbottirmi di tranquillanti. Ma allora – forse perché sentivo spesso un tremito nelle cose e nel petto, forse perché, volente o nolente, la fiaccola dell’esistenza mi era ormai stata consegnata e cominciavo a fantasticare che dovevo correre portandola in modo degno, – una volta scansati gli dèi, tanto impegnativi quanto pericolosi, mi ero rivolto con crescente interesse alle meraviglie della santità. 

Pece,Frammento,Starnone

Mia madre in questo aveva avuto un ruolo importante. Non andava in chiesa perché era una donna bellissima e mio padre, che le governava puntigliosamente la vita e anche i pensieri, non voleva che nel tratto tra casa e altare i maschi – soprattutto i preti non ricchioni, – le mettessero gli occhi addosso seducendola con le loro paroline leziose e insieme saccenti. Tuttavia c’era una persona di sesso maschile con cui fin da prima che io, il suo primo figlio, nascessi, lei era entrata con il consenso debole del marito in una certa intimità. Si trattava di un santo di nome Ciro, del quale lei sapeva vita, morte e miracoli, ma soprattutto morte. Ora non posso giurare che tutte le immagini di martirio che ancora mi girano per la testa io le abbia ricevute da lei: era una donna di occhi accesi, spesso gioiosi, ed escludo che in cima ai suoi pensieri ci fossero in permanenza strazi e supplizi. Ma un po’ ho la testa fragile e faccio sempre più fatica a tenere ben distinto il confine tra ciò che è vero e ciò che ho immaginato; un po’ è successo che la morte le ha annerito lo sguardo presto, quando era ancora una donna giovane e maliósa – be’, c’è poco da fare, quando ieri m’è venuta in mente qui, a un passo  dal mare di mezzogiorno col suo sciacquio lento quasi di lago, l’ho vista con le labbra socchiuse, malinconiche, e ne ho sentito la voce – proprio la sua, un po’ roca, senza vezzi, – che mi raccontava cosa era successo a Ciro, medico e romito, e al suo amico Giovanni, soldato, quando, appena arrivati nella città di Canopo, erano corsi subito alla prigione locale per dare man forte a quattro prigioniere fedeli a Cristo – Atanasia e le sue tre figlie: Teotista, di quindici anni, Teodora di tredici, Eudossia di undici – ed erano stati arrestati a loro volta per ordine del prefetto Siriano.

Pece,Frammento,Starnone

Ho nella memoria quelle immagini atroci: Ciro e Giovanni, in presenza di Atanasia, Teotista, Teodora e Eudossia, vengono spogliati nudi, coi piselli penzoloni come quelli dei cavalli, che allora per strada abbondavano; sono battuti e straziati rabbiosamente con lunghi e nodosi bastoni come se fossero sassi senza sensibilità e non uomini la cui carne illividisce, si spacca, versa sangue giù per la schiena, il petto, il culo, le cosce pelose; braccia e gambe  sono forate con lunghi, acuti chiodi arrugginiti che spezzano vene, venuzze, nervi, ossa; gli aguzzini abbrustoliscono i loro corpi da capo a piedi con la fiamma delle torce passandola di proposito sulle lacerazioni procurate dai bastoni; aceto e sale sono sparsi con divertita diligenza sulle carni piagate;  e infine i due futuri santi, il romito e il soldato, già così malconci, sono obbligati a sistemarsi in piedi dentro un pentolone colmo di pece bollente. Vedo tuttora quegli orrori come se fossi stato presente, ero un ragazzino tutt’altro che insensibile. Per esempio, mi turbava il crocifisso, che pure era un oggetto familiare, diffuso per casa e a scuola con una immancabile foglia di olivo tra gancio e chiodo, residuo pasquale che invecchiava e impolverava finché rinasceva verde a ogni domenica delle palme. Giesù (mia madre pronunciava così il nome del figlio unico di Dio, e io così lo scrivevo a scuola beccandomi un frego blu) l’avevo sempre trovato deprimente, così in croce, così sofferente. Era fin troppo chiaro che stava molto male e a vederlo stavo male anch’io: sgocciolava sangue dalla corona di spine e dal costato; era magro, piagato, gli occhi volti al soffitto secondo me con un’espressione di dolore insopportabile. L’ultima cosa, quindi, che mi poteva venire in mente, gettandogli uno sguardo, era cercare di assomigliargli. Invece farmi santo come Ciro e l’amico Giovanni, quello sì che mi attraeva, innanzitutto perché era evidente che Ciro in particolare aveva la stima incondizionata di mia madre e poi perché – credo che questa fosse la ragione fondamentale –  succedeva che più i malvagi torturatori moltiplicavano gli strazi, più il romito e il soldato, a differenza di Cristo, GIOIVANO – a casa mia si gioiva pochissimo, –  burlandosi della crudeltà con una tale pace di cuore e una tale allegrezza di volto che pareva stessero non nei tormenti ma in qualche dolce convito. Va infine detto che mi piaceva l’idea di fare bella figura con le ragazze come la facevano i due martiri. Teodosia e Teotista erano troppo grandi per me, ma contavo sul fatto che Eudossia, l’undicenne, a vedermi fare ai cattivi le boccacce più esilaranti mentre me ne stavo nella pece bollente, mi avrebbe trovato simpatico e si sarebbe innamorata di me. Quanto mi sarebbe piaciuto gioire insieme a Eudossia nella pece bollente. Credo – e tra l’altro intendo raccontare anche questo – che mi abbia accompagnato per tutta la vita la convinzione che senza pece bollente non si gioisce mai come si deve.

Pece,Frammento,Starnone