Quindici anni fa, ero psicologa da poco, madre ancora da meno, mi ritrovai con terrore a dover fare a mio figlio di nove mesi un piccolo intervento chirurgico. Era un intervento irrilevante, ma ebbe bisogno di un ricovero di un paio di giorni, a causa dell’anestesia generale. Tanto bastò per gettarmi, a me primipara tardiva piuttosto ipocondriaca, in uno stato di grande angoscia. Ricordo però che dovetti ridimensionarmi, come capita quando si varca la soglia di un ospedale per interventi routinari. Il vicino di stanza di mio figlio, era un piccolino del sud, di famiglia operaia, nato dopo una notevole successione di tentativi falliti con gravidanze assistite. Questo bambino era nato in una condizione di intersessualità: aveva un cromosoma xy ma durante la gestazione non si erano sviluppati i caratteri sessuali secondari.
Furono due giorni strazianti. Il bambino di meno di un anno, sarebbe andato incontro a un’operazione non semplice, che avrebbe portato all’esterno i testicoli e avrebbe cercato di fargli avere un membro. I genitori volevano che diventasse maschio a tutti gli effetti, anche se c’era incertezza su come sarebbe evoluta la sua situazione medica, sia in termini di apparato riproduttivo che urinario. Probabilmente avrebbe dovuto fare altri interventi. Non so bene come l’equipe ospedaliera gestì psicologicamente e bioeticamente il caso, né quale fosse precisamente la diagnosi che aveva provocato la mancata formazione degli organi sessuali, ma
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