Quindici anni fa, ero psicologa da poco, madre ancora da meno, mi ritrovai con terrore a dover fare a mio figlio di nove mesi un piccolo intervento chirurgico. Era un intervento irrilevante, ma ebbe bisogno di un ricovero di un paio di giorni, a causa dell’anestesia generale. Tanto bastò per gettarmi, a me primipara tardiva piuttosto ipocondriaca, in uno stato di grande angoscia. Ricordo però che dovetti ridimensionarmi, come capita quando si varca la soglia di un ospedale per interventi routinari. Il vicino di stanza di mio figlio, era un piccolino del sud, di famiglia operaia, nato dopo una notevole successione di tentativi falliti con gravidanze assistite. Questo bambino era nato in una condizione di intersessualità: aveva un cromosoma xy ma durante la gestazione non si erano sviluppati i caratteri sessuali secondari. 

Furono due giorni strazianti. Il bambino di meno di un anno, sarebbe andato incontro a un’operazione non semplice, che avrebbe portato all’esterno i testicoli e avrebbe cercato di fargli avere un membro. I genitori volevano che diventasse maschio a tutti gli effetti, anche se c’era incertezza su come sarebbe evoluta la sua situazione medica, sia in termini di apparato riproduttivo che urinario. Probabilmente avrebbe dovuto fare altri interventi. Non so bene come l’equipe ospedaliera gestì psicologicamente e bioeticamente il caso, né quale fosse precisamente la diagnosi che aveva provocato la mancata formazione degli organi sessuali, ma fui sopraffatta da un disorientamento e un dolore emotivo per i quali nessuno aiutava quella famiglia a trovare parole: nella nostra stanza, ininterrottamente, il padre faceva vedere al figlio  il video di Joe Squillo e Sabrina Salerno che cantano Siamo donne, oltre le gambe c’è di più, ripetendogli cameratescamente quanto fossero attraenti, quanto fossero belle, quanto fossero fighe, oppure in alternativa, facendogli sentire Sex bomb di Tom Jones,  si suppone nel tentativo di iniziarlo, sull’onda di una disperata disdetta psichica, a una maschilità che avvertiva tragicamente a rischio. Era molto preoccupato, e ogni tanto si chiudeva nel bagno in lacrime. La madre la ricordo più solida. Aveva cercato il figlio con tutte le forze, aveva cercato la vita, e ora finalmente l’aveva. Sul come si sarebbe visto poi. 

Alcune forme di intersessualità, come la sindrome di Morris, che si manifesta in questo modo anche per un’ostacolata attività ormonale, portano alla nascita e crescita di bambine che, per quanto abbiano il cromosoma xy, si percepiscono e sono percepite a tutti gli effetti come delle donne

Non sempre le diagnosi delle sindromi intersessuali arrivano così precocemente. Oggi le gravidanze sono molto medicalizzate, specie nel nostro contesto culturale, ma per tantissimo tempo, e fuori dalla zona di confort del primo mondo iperindustrializzato, ancora adesso questo tipo di situazioni non sono rilevate per diversi anni dopo la nascita. Alcune forme di intersessualità, come la sindrome di Morris, che si manifesta in questo modo anche per un’ostacolata attività ormonale, portano alla nascita e crescita di bambine che, per quanto abbiano il cromosoma xy, si percepiscono e sono percepite a tutti gli effetti come delle donne. In letteratura, non mancano i casi di giovani che si sono accorte di avere questa diagnosi solo cercando la causa di un’inspiegata amenorrea, e in alcuni casi, cercando una gravidanza che non arrivava. Non è neanche scontato che, con questo genotipo xy, alla mancanza di caratteri sessuali secondari corrisponda un fisico particolarmente androgino, proprio perché è la stessa attività ormonale inibita a certi stadi della crescita ad aver reso impossibile l’emergere del membro e dei testicoli. Non mancano in effetti casi di modelle e attrici: famoso e citato in questi giorni quello Kim Novak, ma ce ne sarebbero altre, molto femminili all’aspetto, molto aggraziate e seducenti.

Per capire bene di cosa si parla può essere utile citare la differenza tra le transizioni sessuali prepubertà e post pubertà. Si tratta di un tema bioeticamente molto spinoso, perché è comprensibile ritenere che un bambino prima di dodici anni non sia psicologicamente maturo per poter davvero decidere se cambiare sesso o meno; ma sta di fatto che se la transizione per esempio da bambino a bambina avviene prima della pubertà, la fisicità sarà allora molto femminile, e più agilmente equiparabile a quella delle ragazze,  perché gli ormoni non faranno in tempo ad agire sul futuro del suo corpo, mentre se la transizione avviene dopo, l’attività ormonale avrà già avviato uno sviluppo corporeo che renderà il risultato molto più perfettibile, con la necessità di un numero maggiore di interventi, e non di rado un risultato solo parzialmente soddisfacente: la fisicità sarà più mascolina. Il contributo degli ormoni può cioè variare a diversi stadi della vita del soggetto, e nelle sue variazioni comportare delle differenze incisive. La sindrome di Morris, di cui parliamo in questi giorni, perché potrebbe riguardare l’atleta algerina Imane Khelif, è più assimilabile alle transizioni prepubertà che post.

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Kim Novak © Sunset Boulevard / Getty Images

Le persone che si occupano di studi di genere, o di questo ordine di problematiche mediche, organizzano la formazione dell’identità di genere in un modello scalare, su otto livelli: sesso cromosomico, sesso gonadico, ormoni, formazione di organi sessuali interni, formazione di organi sessuali esterni, genere assegnato alla nascita, identità di genere, differenziazione sessuale del cervello. Quando ci si avvicina alle persone che decidono di cambiare sesso, che soffrono di una disforia di genere o che vivono una sindrome di intersessualità, ci si accorge di questa pluralità di oggetti che costruiscono insieme un prodotto ultimo, l’identità di sessuale, e si ha questa empirica, quasi emotiva, perdita di sicurezza su ciò che si intende graniticamente come maschile e femminile. In linea di massima, la maggior parte delle persone decide la propria identità sessuale con nettezza e la usa, spesso in modo spontaneo, per organizzare l’identità prossima e altrui, l’interpretazione del sesso propria e altrui, approdando a un’affidabile mappatura dei comportamenti di genere.  Di più: la maggior parte delle persone usa la differenza sessuale come una sorta di aggregante dell’identità, il tavolo su cui mettere le cose per poi decidere col tempo il cosa tenere e il cosa lasciare, che aspetto dare al proprio tavolo.  

Per quanto ci sia una minoranza sempre più estesa di soggetti che si percepiscono oggi autenticamente in un’area terza, fuori dal binarismo tradizionale, in molti rimaniamo attaccati alle nostre abitudini cognitive, anche quando vediamo i mattoni che le compongono

Certi itinerari esistenziali particolari però provocano l’esperienza di una perdita, non tanto di sicurezza, ma di nettezza riguardo a quelle coordinate mentali. Il papà del bambino in ospedale viveva l’identità del figlio, nonostante i cromosomi,  come lacunosa: il figlio per lui non era bambino fino a che non avesse avuto i suoi organi riproduttivi visibili.  Questo padre non sentiva l’identità del piccolo come totalmente riconoscibile. E sentiva il tavolo del figlio – e di rimando il proprio – come scomposto, instabile. Cercava affannosamente di recuperarne l’integrità in un modo che chiamerei psicologicamente artigianale, ancorché convulso. Questa formazione artigianale alla maschilità passava dall’angosciante ripetizione del video di Squillo e Salerno, quindi da una sorta di coazione massiccia allo stereotipo sociale del maschio seduttore.  Vale la pena sottolineare che, molto probabilmente, se avesse scoperto solo più tardi che era un xy, l’avrebbe pensato fin dalla nascita e per tutta l’infanzia come una bambina, e lo shock emotivo, sarebbe stato speculare ma declinato al femminile.

Per quanto ci sia una minoranza sempre più estesa di soggetti che si percepiscono oggi autenticamente in un’area terza, fuori dal binarismo tradizionale, in molti rimaniamo attaccati alle nostre abitudini cognitive, anche quando vediamo i mattoni che le compongono.

Un’esperienza analoga, dilatata da discutibili strumentalizzazioni politiche, la stiamo vivendo con la vicenda della pugile algerina la cui presenza alle olimpiadi è puntellata da polemiche e problemi. Imane Khelif è stata al centro di molte aggressioni e discussioni perché accettata in queste olimpiadi, nonostante ai precedenti mondiali di pugilato la commissione esaminatrice l’avesse rifiutata, avendo apparentemente appurato a seguito di una serie di analisi che aveva il cromosoma xy. Il CIO però l’ha ammessa alle gare perché non violava nessun parametro secondo il loro regolamento: il testosterone che aveva in circolo rientrava nei parametri stabiliti. Se fosse vero che le analisi fatte ai mondiali di pugilato avessero rivelato un suo cromosoma xy, sarebbe lecito supporre che anche questa atleta sia un caso di sindrome di Morris, anche se non abbiamo alcuna dichiarazione che lo confermi. Quanto abbiamo saputo però ha agganciato parte dell’immaginario collettivo anche per via del tipo di sport in cui gareggia: normalmente le donne con questa sindrome sono molto longilinee, con bacino stretto, poca peluria, e si è addebitata la fisicità dell’atleta alla sua condizione anziché al tipo di allenamento. Questo ha fatto ugualmente sentire a tutti molto da vicino di quanti mattoni sia composto il sesso che danno per scontato, e ha portato qualcuno a gridare a gran voce slogan e sconcezze, con strategie psichiche analoghe a quelle del padre disperato di cui parlavo, atte a compensare lo scompenso cognitivo provocato dalla sfumatura che realmente domina il fenotipo del sesso.  E qualche politico a corto di strategie per la sua crisi programmatica ne ha fatto un uso strumentale.

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Stanislawa Walasiewic © Brandstaetter Images / Getty Images

Se si discute da tempo sulla dignità di tutte le soluzioni esistenziali non convenzionali, non ovvie, in termini di sesso e genere, la sovrapposizione di queste tematiche con il contesto sportivo comporta una specie di attrito psichico, una voragine cognitiva, uno scarto esperienziale che indica la necessità di una nuova riflessione, la quale onestamente per il momento non pare neanche avviata. 

Filosoficamente, antropologicamente, il mondo dello sport vorrebbe essere la quintessenza di un robusto positivismo, edificato su un’idea del corpo mediamente poco complessa, confidando nella capacità materiale dei corpi a esprimere significati dirimenti, a fare cultura per conto loro. Il peso produce significato, l’altezza produce significato, il sesso produce significato. In ambito sportivo, l’organizzazione di questi significati espliciti si è tradotta nel tempo in categorie precise, maschi e femmine, con sottogruppi definiti da differenze di peso, grazie a un sistema di classificazione e di decodifica che va per grandezze discrete e si fonda su criteri basati sull’evidenza. La gestione della biologia dei corpi accetta una serie di variazioni interne, ma rimane connotata da grandezze discrete. E in effetti se ci pensiamo, il grosso problema di questo dibattito non riguarda l’ipotesi della creazione di una categoria terza oltre quelle delle specialità maschili e femminili, una categoria che rispecchi – per quanto questa ipotesi possa parere assurda – le nostre più recenti acquisizioni in termini di identità di genere e fluidità. Il problema è quello di mantenere le vecchie e care grandezze dicotomiche, il vituperato binarismo, decidendo se condizioni liminali hanno più o meno diritto di rientrarci, perché quelle grandezze dicotomiche sono ancora riconosciute come funzionali, fanno ancora parte del nostro mondo.  Di fatto la divisione per sessi nasce nel mondo dello sport per osservazione di una importante differenza in termini di volume e peso dei corpi, così come di forza fisica, e di resistenza al dolore. Quel binarismo in quel mondo è ancora molto funzionale. 

La questione della pugile algerina doveva rimanere un tema bioetico ristretto esclusivamente al contesto olimpico, e risolto da addetti ai lavori, ragionato nell’ellisse che è coperta da commissioni con competenze di medicina dello sport e null’altro

Tuttavia, il mondo dello sport oggi non riesce a mantenere le sue premesse teoriche. Non c’è univocità e concordia tra le associazioni sportive su come gestire la questione dei livelli di testosterone, per cui si osservano divergenze ampie tra i comitati delle singole specialità, e questo fa capire quanto a sua volta il contesto sia animato da aspetti culturali che condizionano e rileggono i dati scientifici. È interessante la constatazione che viene da più parti secondo cui toccano sempre alle atlete del sud del mondo questi controlli di secondo livello sul tasso di testosterone, su quanto siano effettivamente donne.  In ogni caso, l’assenza di concordia tra associazioni le rende tutte sempre meno credibili, compreso lo stesso comitato olimpico, per blasonato che sia.  I livelli di testosterone ammessi per le atlete nelle gare di pugilato femminile, oggi molto inclusive, non sono gli stessi ammessi dall’associazione di nuoto agonistico per le atlete in gara, molto restrittivi. 

La soluzione di trovare dei criteri entro cui la partecipazione è permessa è una giusta soluzione,  e l’atteggiamento più inclusivo del Cio è  probabilmente corretto, anche perché i livelli ormonali non sono l’unico contributo a un possibile vantaggio sul campo di cui un atleta potrebbe disporre. Il punto è che solo adesso si raggiunge una consapevolezza bioetica su questo potere semantico del corpo, per cui occorrono linee guida più stabili e univoche di quanto lo siano state fino adesso.

La questione della pugile algerina doveva rimanere un tema bioetico ristretto esclusivamente al contesto olimpico, e risolto da addetti ai lavori, ragionato nell’ellisse che è coperta da commissioni con competenze di medicina dello sport e null’altro. Non doveva essere usata da nessun politico. Ma uno dei grossi problemi di questo complicato momento storico è proprio questo: per un verso un cambiamento culturale ci sta portando a riformulare una visione semplicistica delle nostre e altrui identità sessuali e di genere, per cui è nato un nuovo tema collettivamente affrontato, per alcuni stimolante e per altri destabilizzante, per un altro, però, questo tema diviene lo specchietto delle allodole con cui politici in crisi per quanto concerne l’efficacia della loro gestione amministrativa, e che non riescono a mettere in campo politiche economiche che lascino un segno di alcun tipo, si inventano, nel tentativo di fabbricare un’identità culturale sulle ceneri di strutture partitiche estinte, una centralità dell’identità di genere, o un presunto problema nella gestione del transessualismo, ingigantendo e drammatizzando l’esemplarità di giovani atleti e atlete, delle loro vite private, delle loro difficoltà nel mondo dello sport, in modo spesso anche ignorante e non informato, e facendoci credere che davvero a noi dovrebbe più interessare il tasso di testosterone di una pugile del tasso di disoccupazione del paese. Forse, converrebbe non farci distrarre troppo.