Alessandro Broggi l’ho conosciuto perché tra poeti prima o dopo ci s’incontra tutti. Ma Alessandro non era come tutti: per la scrittura, per l’aspetto, per i modi. Talento e garbo non sono una combo molto circolante, ma in lui avevano trovato una coesistenza accogliente, come la sua casa. E come il suo futon: “Qui è dove dorme Zaffarano”, mi disse la prima volta che fui sua ospite, una dozzina d’anni fa. Michele Zaffarano è stato suo compagno di poesia e di dialogo intellettuale più di quanto non lo sia stata io, che mi sono limitata a leggerlo e ad apprezzarlo, da sempre, ma con particolare attenzione nell’ultima fase. Le prose che aveva pubblicato sul sito di mtm teatro, e che sarebbero poi confluite in Sì (Tic edizioni), mi avevano completamente abbacinata per la loro potenza filosofica e direi cosmologica. Una specie di Malick ripassato da Fortini o meglio ancora da Brecht, come scriveva Andrea Inglese nella sua recensione. Così come mi aveva spiazzato Idillio, uscito per Arcipelago Itaca, di cui avevo parlato con entusiasmo finanche trattenuto (per non imbarazzarlo) in un pezzo pubblicato sul nostro sito. Ci sentivo la bravura incomparabile ad altri, ma anche un’imminenza della fine, che rischiarava il senso e liberava la scrittura da tutti gli interdetti passati: si potevano nominare paesaggi, percorsi fisici e mentali procedevano di pari passo, la strada della lirica tornava comoda per una serie di immagini che la ricerca fino a quel momento aveva forcluso (o piegato alle esigenze dell’ironia – peraltro a ben pensarci consustanzialmente idillica da Leopardi, che usa la forma classica dell’intesa uomo-paesaggio per condividere la sua sfiga esistenziale).
Pensavo alla malattia, che Alessandro aveva annunciato un paio di anni fa con un post scioccante per tutti: “Sono diventato improvvisamente un paziente oncologico”. Un post che aveva traumatizzato anche e a maggior ragione gli amici: la malattia lo fa. Accollarsi il fardello del corpo che cambia, degli effetti delle terapie sulla voce, lo sguardo, è un compito difficile che spetta alle persone più prossime. Alessandro aveva deciso di non nasconderlo, quel corpo che cambiava. Di usarlo come usava la scrittura, per ricollocarsi nello spazio, in contatto con gli ambienti o con le persone che incontrava, senza esibizione ma a scopo “allegorico” (per dirla di nuovo con Inglese), a non voler usare il termine politico. Era un gioco sociale con l’involucro, più che una messinscena o un’ostensione del sé vulnerato. Dobbiamo anche dire che il suo corpo che cambiava conservava la sua peculiarità e la sua bellezza, non era un corpo “banalmente” malato, ma un corpo creativamente rivisitato. I maglioni di Alessandro. I capelli color purtuallo (come si dicono certe arance del sud). Il sorriso non nonostante ma con le cose, in mezzo alle cose, fossero anche drammi. Abbiamo visto altri esempi recenti di condivisione social della malattia: Broggi ha continuato a condividere soprattutto le sue letture, a postarne stralci (da Emilio Manzotti, curatore dell’edizione critica della Cognizione gaddiana e da Ionesco, tra gli ultimi), a comunicare agli amici e ai suoi interlocutori le sue intenzioni di ricerca, le sue direzioni di scrittura.


Quando gli avevo chiesto, di recente, se potevo intervistarlo per Esuli, una serie di scambi che intrattengo con autori non convenzionali, pensando all’esilio della sua scrittura dall’editoria mainstream e anche, confesso, in modo anticipatorio all’esito fatale che preannunciavano i suoi messaggi pubblici o ancor più privati (le continue, pacate ma inevitabili allusioni al non avere abbastanza tempo), aveva garbatamente declinato spiegandomi di aver deciso di lasciar parlare solo la scrittura, che non voleva contaminare con l’autoriflessione. Alessandro su Facebook ha condiviso le diagnosi e la sua natura di mutante oncologico, ma non l’io nella sua versione narcissica ed esibizionista. Non c’è stato un solo post personale, in tutto il suo periodo massimamente creativo, che ha per sventura coinciso con la diagnosi e il decorso della sua malattia. La notte tra il 30 e il 31 dicembre è morto un amico di tante persone, poeti, critici di poesia. È morto uno scrittore che sarebbe bene leggere anche fuori dalla nicchia poesia, e che potremo anzi dovremo impegnarci a far conoscere per la parte non piccola, e soprattutto enorme qualitativamente, che ci lascia. Non ci lascia del tutto, quindi: e personalmente lo avrò sempre davanti come uno dei pochissimi esempi di condotta discreta, non insistente, non arrembante, proprio perché incarnata in un uomo dagli interessi superiori, non invischiato nelle piccinerie di carriera e di prestigio. Voleva essere letto perché aveva qualcosa da dire, in dialogo con altri che lo avevano sollecitato, ispirato, corroborato. E con questa consapevolezza poteva serbare la stessa assennata serenità di fronte alla prospettiva di un nuovo libro come alla fine di ogni cosa. Alessandro, o di un’altra specie. La bravura la verificherete sui suoi libri, d’ora in avanti, se vi eravate distratti.