L’unica vera domanda che mi sono fatto sin dalle prime pagine di Malbianco è stata «perché Desiati scrive?». Si tratta di una domanda che si fanno gli scrittori, spesso in pubblico, per legittimarsi; meno spesso in privato, senza pietà per se stessi. E all’inverso, i critici se lo chiedono in privato, ma praticamente mai nel discorso pubblico. Pure, non sono riuscito a scacciarla via. Un po’ perché l’esibita postura rinunciataria del protagonista di Desiati (Marco Petrovici) mi aveva contagiato – segno che il romanzo, almeno sul piano non certo secondario del contagio mimetico, funzionava –, un altro po’ per la mia incapacità di entrare in sintonia con il meglio – che c’è e non è trascurabile – della scrittura di Desiati, fino alle soglie della noia.
A prima vista, Malbianco è una storia di elegante e dimessa tristezza. Racconta la riparazione delle radici spezzate di Marco, un quasi-cinquantenne pugliese da molti anni “spatriato” a Berlino, che torna una volta per tutte nella sua città natale (Taranto) per provare a guarire da un’oscura condizione fatta di panico e svenimenti. La sua terapia passa in piccola parte per una cura dallo psichiatra e per il contatto ritrovato con la natura; in prevalenza consiste nell’indagine, con quarant’anni di ritardo, sulle tracce del Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo. Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.Questo contenuto è visibile ai soli iscritti