Reduce con tanto di sindrome da stress post-traumatico da una travagliata relazione con l’ultimo romanzo di Giordano Tedoldi, fresco di pubblicazione dalla palermitana Corrimano Edizioni, mi ritrovo a pensarlo in forma di nero monolite kubrickiano. Quanto a me – lector in fabula obscura – mi vedo come uno degli antropoidi scimmieschi che gli girano intorno combattuti tra paura e attrazione, tra dispetto per la violazione di territorio e fascinazione per le mutevoli forme variopinte che appaiono sulla sua superficie per poi, rapidamente, scomparire come risucchiate al suo interno e restituire alla visione una superficie buia e impenetrabile. 

Avrò preso venti volte la decisione di lanciare il libro dalla finestra, venti volte sono tornato a leggere. Si procede senza riferimenti, il nostro gps ha cessato di funzionare. Siamo forse dalle parti del Houellebecq delle Particelle elementari o della Possibilità di un’isola? L’autore cita piuttosto i suoi cari marginali: James Purdy e Friedrich Dürrenmatt. Possiamo parlare, eccome, di gusto per l’aberrante, il disturbante, il provocatorio, di vocazione visionaria massimalista. Tutte caratteristiche che accompagnano Tedoldi fin dai primissimi racconti sulle pagine di «Maltese Narrazioni», alle quali si aggiunge qui una vena comico-scatologica.

Mentre il treno della narrativa italiana viaggia sui binari della memoria verso l’esplorazione del Trauma e la riscoperta degli avi, sul vagone deragliato di Phallus Dei ci troviamo di fronte alla irresistibile ascesa aziendale di Sodal, un vice-addetto alla rifinitura manuale dei bagni del gruppo Axum (un significativo riferimento all’obelisco). È contento Sodal della sua condizione, lui che pulisce i cessi con ardore come se la lotta contro la merda avesse un risvolto metafisico?

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