In occasione del cinquantenario della morte di Marcel Duchamp – 2 ottobre 2018 – mi sono chiesto in un libro, dove ho cercato di smontare alcuni meccanismi del suo discorso artistico (Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp, Medusa Edizioni, Milano 2018), se il suo mito fosse entrato in una fase regressiva, vale a dire se fosse in atto un processo di dismissione o rottamazione del suo magistero di artista “più influente” dell’ultimo secolo. L’anno dopo – 2019 – in America è uscito un documentario intitolato Marcel Duchamp. The Art of the Possible, diretto da Matthew Taylor, dove si sostiene attraverso sequenze di fatti, idee e interviste a vari esperti, che egli fu, durante gli anni Sessanta, il guru di una nuova generazione di artisti e si afferma che se nel 1959 si chiedeva ai frequentatori del sistema dell’arte chi fosse il nome all’epoca più influente, la risposta di molti sarebbe stata senza tentennamenti: Picasso. Dieci anni dopo, invece, la maggioranza avrebbe risposto: Duchamp. C’è del vero in tutto questo, perché il mito di Duchamp nasce in America dopo la Seconda guerra mondiale, e da là comincia a imporsi negli anni Cinquanta, ma ha avuto bisogno, per decollare, anche di certi artifici che apparentemente smentivano la stessa filosofia di Duchamp. Tanti dei ready-made e altri suoi lavori erano “fantasmi”, perché sono sopravvissuti fino a noi nell’immagine riflessa della fotografia e dei media (nel libro ho cercato di spiegare perché se non avessimo la fotografia realizzata da Stieglitz nel 1917 del cosiddetto “orinatoio”, Fountain, il suo mito non esisterebbe e oggi non ne parleremmo più, probabilmente).

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