Sul lastricato restano, del piccione, solo le ossa del torace, ancora connesse, e le ali. Le ali sono ossa e penne. Chi sa chi si sarà mangiato il resto, pensa. Un cane? Un gatto? Le formiche? Qualunque animale grosso non sarebbe riuscito a lasciare così intatto tutto, pensa. Non sarebbe riuscito a svuotare il torace lasciando le ossa. Ma se sono state le formiche, dov’è finito il resto? Le zampe, le penne, le piume. Sarà stato un animale grosso ad abbatterlo, il piccione, a strappargli via a morsi il grosso; il resto l’avranno fatto le formiche. Le penne delle ali sono attaccate più saldamente alle ossa, e poi nelle ali c’è poca carne; l’animale grosso non era interessato a spolparle, per così poca carne, rischiando di ferirsi con le ossa. Le formiche hanno pulito il resto. E il vento, sarà stato il vento, anche se non gli pare che ci sia stato vento, a portare via le penne, le piume. Qualche ora dopo, quando esce di casa una seconda volta, incontra di nuovo i resti del piccione: ma non più dove li aveva visti, nella piazzetta, bensì in un angolo della piazza grande. Tra la piazzetta e la piazza grande c’è una via, saranno cento metri. Sarà il medesimo piccione? Sarà un altro piccione? Avanti, sono due anni che sta in questa città, non ha mai visto un piccione spolpato in terra, possibile che in un giorno ne veda due? Va in piazzetta. Lì non c’è più niente. Be’, avranno pulito. O qualcuno ha trasportato il piccione da lì a là? E a chi sarebbe venuto in mente di farlo? Cosa importa, a chiunque, della carcassa misera di un piccione? I ragazzini. Saranno stati i ragazzini, quelli che vede in gruppetti, soprattutto nel tardo pomeriggio, che fumano in fretta un pacchetto di sigarette, una via l’altra, talvolta una canna, si sente dall’odore: saranno stati i ragazzi, per divertirsi, per fare qualcosa di schifoso, per fare ribrezzo a qualcuno. I ragazzi fanno queste cose. Non hanno riguardo per nessuno. Hanno quattordici anni, sedici, fumano di nascosto, si fanno qualche canna, lì in strada, come se non si sentisse dall’odore, spavaldi, vogliono fare cose che fanno schifo, vogliono far inorridire i grandi, le ragazze, vogliono sentirsi fuori da tutto. Qualcuno dovrà occuparsene, pensa, di questa carcassa di piccione. Ci penseranno gli spazzini, domani. Ci penseranno stanotte, gli spazzini notturni, quelli che sente passare sotto le sue finestre, tra l’una meno cinque e l’una e cinque, tutte le notti, ci penseranno loro, anzi non ci penseranno, passeranno con il loro veicolo, gli spazzoloni rotanti, l’aspirazione, della carcassa del piccione non resterà niente, non si accorgeranno nemmeno di averla risucchiata, finirà poi – chissà dove finirà, dove buttano quello che raccolgono, chi lo sa. Non è affar suo.

Giulio Mozzi,Scrittori italiani contemporanei,scrittori italiani di racconti,narrativa italiana contemporanea

Nei primi tempi dell’epidemia, ricorda, non spazzavano più, passavano sempre con quel loro veicolo, ma non spazzavano, non sollevavano polvere, spruzzavano invece disinfettante, disinfettante diluito nell’acqua, per disinfettare le strade, per togliere dalle strade il virus. Le strade erano sporchissime, in quei mesi, una volta aveva osservato dei pezzi di pane su un marciapiede, proprio sotto casa sua, erano rimasti lì per due, per tre, per quattro settimane, si erano decomposti, poi pian piano polverizzati, non si erano neanche ricoperti di formiche, troppo disinfettante nelle strade per le formiche, povere formiche, ma poveri anche gli scarafaggi, poveri gli umani. Gli scarafaggi fuggivano dalle strade, dalle fogne, da ogni dove, spaventati dal disinfettante, cacciati dall’odore del disinfettante, fuggivano e si rifugiavano dentro le case, non si erano mai visti tanti scarafaggi nelle case, di tutti i tipi, quelli lunghi neri, quelli grossi marroni, quelli piccolini, quelli che per scappare sollevano l’addome, quelli che passano sotto le porte, quelli che si infilano anche tra le finestre e il telaio, te li ritrovavi ovunque, sul balcone, in cucina, tantissimi in bagno, bastava spruzzare del prodotto la sera e la mattina dopo trovavi dieci, quindici, trenta, quaranta scarafaggi morti, in giro per tutta la casa, dappertutto. Alla fine smisero di disinfettare le strade, la Protezione civile aveva detto che non serviva a niente, serviva solo a riempire le case di scarafaggi, e poi magari gli scarafaggi portavano il virus nelle case, chi può dirlo?, non si sapeva se gli scarafaggi potevano portare il virus, ma era facile immaginarlo, in quei mesi non si sapeva niente, cosa portasse il contagio, cosa no; e poi: quando apri lo sportello basso della dispensa, quello dove tieni lo scatolame, e ti saltano fuori due tre quattro scarafaggi di corsa, sai con che gusto poi ti mangi la roba, d’accordo che era dentro la scatola, ma comunque per tirarli fuori, i fagioli, i pelati, i ceci lessi, quelle cose lì, devi maneggiare la scatola, la scatola su cui hanno passeggiato gli scarafaggi, su cui hanno scacazzato gli scarafaggi, su cui hanno copulato gli scarafaggi, che storia. Aveva buttato via tutto, quando era successo. Aveva disinfettato tutto. Aveva smesso di tenere roba nello sportello basso della dispensa. Gli scarafaggi mangiano qualunque cosa, anche i piccioni? Ma gli scarafaggi non possono aver catturato il piccione. Il piccione sarà morto di suo. Si vedono, ogni tanto, certi piccioni con il piumaggio biancastro, che se ne stanno a terra, negli angoli, con il piumaggio gonfio, tutti tremanti: sono moribondi, stanno lì a morire, sono preda facile per i cani, per i gatti, per gli scarafaggi e per le formiche. Anche per i passeri. Aveva visto, una volta, una squadra di passeri attaccare un piccione. C’era ancora suo padre, ancora metteva fuori, sul terrazzino della cucina, non in questa città, tutti i giorni, la vaschetta di plastica bianca con i semini, il miglio decorticato comperato in farmacia, le briciole di pane, ma i passeri gradivano soprattutto il miglio decorticato della farmacia: metteva fuori la vaschetta e i passeri arrivavano, arrivavano anche i merli, un’estate c’erano stati anche i tordi, una coppia di tordi, suo padre si divertiva a guardarli, li guardava, i passeri, tutti i giorni, li studiava, lui vecchio biologo, osservava il comportamento dei maschi, delle femmine, osservava come insegnavano ai nuovi nati a mangiare, un poco alla volta, li riconosceva, si accorgeva dei turni, prima il maschio adulto, poi la femmina adulta, poi il maschio adulto nutriva i piccoli, i piccoli si mettevano lì, accanto alla vaschetta, non sapevano beccare, si mettevano lì e spalancavano la bocca verso l’alto, e aprivano le ali e le agitavano, come nel nido, e il maschio adulto prendeva il miglio decorticato e glielo buttava dentro, le prime volte, poi smetteva di darglielo, poi li colpiva col becco, sul coppino, li spingeva verso la vaschetta, i piccoli esitavano, il maschio beccava, mangiava difronte a loro, i piccoli pian piano capivano, cominciavano a piantare il becco nel miglio decorticato, lo spargevano dappertutto, agitavano le ali, facevano un casino, e poi un giorno ti accorgevi che niente, beccavano tutti tranquilli, avevano imparato, sapevano fare. I merli e i tordi arrivavano quando i passeri non c’erano, se c’erano i merli o i tordi i passeri si tenevano a distanza, non litigavano mai, solo stavano a distanza, si davano il turno, con rispetto, poi un giorno arrivò un piccione, c’erano cinque o sei passeri, arrivò il piccione e atterrò direttamente dentro la vaschetta, i passeri non ci pensarono un attimo, gli saltarono addosso, lo beccavano, gli puntavano gli occhi, gli si aggrappavano alle penne, il piccione cercava di liberarsi, non ci riusciva, un casino, il miglio si spargeva dappertutto, un passero maschio riuscì ad attaccarsi con le zampe al collo del piccione, gli dava i colpi sulla testa, e poi uno di qua, uno di là, per colpire gli occhi, il piccione cercava di camminare, uscì dalla vaschetta, agitava le ali, si trascinava, cercava di togliersi di dosso i passeri, sulle piastrelle del terrazzino c’era dello sporco, nella vaschetta del miglio c’era dello sporco, il piccione aveva cagato, forse sanguinava, sicuramente sanguinava, il maschio che gli stava sul collo a forza di colpirlo sulla testa gli aveva scoperto il cranio, gli aveva bucato un occhio, il piccione zampettava sul posto, zampettava senza riuscire a camminare, i passeri gli beccavano il ventre, gli spezzavano le penne, gli strappavano le penne dalla coda, arrivarono i due tordi, i passeri mollarono tutto di colpo, il piccione era come un idiota, si muoveva appena, appoggiò il ventre sulle piastrelle del terrazzino, uno dei due tordi lo urtò, il piccione cadde su un fianco, i tordi cominciarono a beccargli la pancia, a strappargli dei filamenti di carne, mangiarono finché furono sazi. Poi andarono via e tornarono i passeri, i passeri ignorarono il piccione, cominciarono a becchettare i semi di miglio decorticato sparsi per tutto il terrazzino. Fu il padre a raccontargli la scena, aveva visto tutto dalla porta vetrata del terrazzino, perché non hai fatto niente per fermarli?, sono bestie, vivono la loro vita da bestie, non avevo ragione per fermarli. Così disse suo padre, così ricorda.

Giulio Mozzi,Scrittori italiani contemporanei,scrittori italiani di racconti,narrativa italiana contemporanea

28 gennaio 2023