I lettori di Flaubert possono ormai dormire sonni tranquilli: Antonella Lattanzi ha dato il proprio placet a Madame Bovary. E un tale gesto di magnanimità è stato compiuto nonostante l’autore si fosse macchiato, in vita, di una colpa che, per la morale di alcuni scrittori odierni e nostrani, sembra incancellabile: essersi sbarazzato, con una breve lettera, di un’amante divenuta importuna, rifiutandosi di rivederla. Insomma, per aver praticato una sorta di ghosting.
È quanto scopriamo grazie a un articolo pubblicato su «Lucy sulla cultura», la cui presentazione lascia di stucco: «Flaubert, Simenon e gli altri: che farcene dell’arte creata da chi in vita era cattivo? Scoprire che i propri beniamini sono persone abiette ha davvero il potere di cambiare il modo in cui la loro arte ci tocca? Una riflessione a partire dalla rilettura di Madame Bovary». Me tastu se ghe sun, si direbbe dalle mie parti, a Genova, la città in cui Flaubert, contemplando un dipinto di Brueghel il Giovane, ebbe la visione di uno dei suoi romanzi, La tentazione di Sant’Antonio.
Ma procediamo con ordine. Antonella Lattanzi parte da un aneddoto ricostruito non si capisce bene su quali fonti:
Nel 1855, Louise Colet – scrittrice e a lungo amante di Gustave Flaubert – va a casa di lui perché vuole vederlo e conoscere sua madre. Forse, una relazione così saltuaria le sta stretta e ha deciso di compiere un gesto per farla diventare qualcosa di più. Forse vuole semplicemente conoscere la casa e la vita della persona che frequenta e con cui ha una fitta corrispondenza. Non so esattamente cosa succede in quel frangente. So che Louise qualche tempo dopo riceve da Gustave una lettera che fa così: “Signora, ho saputo che vi siete data pena di venire da me, in serata, per tre volte. Non c’ero. E nel timore dei soprusi che una tale insistenza da parte vostra potrebbe attirarvi da me, il galateo mi obbliga di avvertivi: non ci sarò mai più. Ho l’onore di salutarvi. G.F.”
In realtà, Louise Colet non si recò nella casa di Flaubert e della madre, a Croisset, ma all’Hôtel du Helder a Parigi, dove lo scrittore alloggiava da solo e dove era solito incontrarsi proprio con l’amante, da cui si stava ormai distaccando. Di dieci anni più anziana di lui, Colet non era, fra l’altro, una sprovveduta, né aveva carattere facile: ebbe numerosi altri amanti nell’ambiente culturale parigino, alcuni dei quali mentre frequentava Flaubert, e con il suo beneplacito; accoltellò, sorprendendolo sotto casa, il giornalista Alphonse Karr, reo di avere alluso in un articolo alla sua relazione con Victor Cousin, l’uomo di vent’anni più anziano che le aveva dischiuso le porte del mondo letterario.
A meno che il non voler presentare un’amante alla propria madre sia un motivo di dannazione eterna, non si capisce bene perché si dovrebbe giudicare abietto Flaubert, lui che, come testimoniano innumerevoli lettere, fu, oltre che un immenso scrittore, un amico amorevole e un mentore generoso (senza i suoi costanti, paterni, lucidi incoraggiamenti, non godremmo oggi di un altro dei massimi scrittori francesi dell’Ottocento: Maupassant). Adottando questi parametri moralistici di giudizio, chissà quali problemi dovremmo allora porci per leggere Alfred de Musset, che Louise Colet cercò di stuprarla in un tragitto in carrozza a Parigi, come raccontò lei stessa a Flaubert in una lettera…
Dal mio punto di vista di lettore, nessun problema, ovviamente. Sono questioni che non mi hanno mai sfiorato, nemmeno quando, adolescente, lessi Sade, finito in prigione per avere, fra le altre cose, flagellato delle prostitute, o Burroughs, che sparò un colpo di pistola in faccia alla moglie giocando a Guglielmo Tell (un bicchiere di cognac sulla testa, in luogo della più iconica mela). Poi mi bastò leggere il Contro Sainte-Beuve di Proust al primo anno di università per capire definitivamente quanto possa essere ottusa ogni sovrapposizione tra l’uomo e lo scrittore («L’uomo che vive nello stesso corpo insieme a un grande genio ha poco da spartire con lui»).
Per Antonella Lattanzi, la letterina con cui Flaubert congedò Louise Colet costituisce invece un vero e proprio caso di coscienza, aggravato da un’altra sua passione letteraria, Simenon, un «maschilista che usa le donne, perfino l’amore di sua figlia, per i propri affari, non alza un dito su nulla che non sia scrivere, lascia impazzire le sue mogli e lascia che, nel vano tentativo di essere amata da colui che ama di più al mondo (suo padre George), sua figlia si suicidi. Scrive, beve, fa sesso, viaggia: tutto sulle spalle delle donne» (confesso che non mi è chiaro in che senso Simenon scrisse, bevve, scopò e viaggiò «sulle spalle delle donne»: forse in senso letterale? Comunque sia, Simenon consacrò alla figlia Marie-Jo l’ultima parte, dolentissima, dei Mémoires intimes, il suo testamento umano e letterario).

Per risolvere il duplice dilemma morale posto dal suo amore per Flaubert e Simenon, Lattanzi ha dovuto mobilitare tutte le risorse del proprio coraggio, in uno slancio di audacia di cui, col candore di un cuore semplice, per dirla con Flaubert, ci vorrebbe partecipi:
Non voglio fregiarmi della parola intellettuale, ma mettiamo che uno poiché è uno scrittore e riflette da anni sulla realtà, le parole e l’irrealtà, possa essere chiamato intellettuale, mettiamo che io posso essere chiamata, anche per un attimo, intellettuale, io mi domando: cosa è permesso oggi a un intellettuale? Cosa può scrivere, cosa può dichiarare, senza aver paura? Io che dico tantissime bugie, io che non ho mai scritto una bugia, io che non ho avuto mai paura di scrivere proprio quello che volevo scrivere – è questa la fede nella letteratura – perché ho avuto paura di scrivere un attacco su due uomini quantomeno codardi? Perché ho avuto paura che i lettori mi si rivoltassero contro? Perché ho alzato il telefono e ho detto a un mio amico scrittore: senti, io vorrei farlo così, invece lo faccio colà, perché non voglio rogne?
Poi però, sapete, la fede. Non scrivere bugie. E allora ho dovuto attaccare con questi due scrittori stronzi.
C’è da chiedersi come sia possibile che certi letterati italiani non vengano colti dal dubbio di essere magari loro, un po’ codardi e un po’ stronzi. A furia di passare il tempo a postare banalità edificanti sui social, o a mettere cuoricini alle edificanti banalità postate dai loro colleghi, sembrano considerarsi coraggiosi e buoni per davvero, al punto di Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo. Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.Questo contenuto è visibile ai soli iscritti