Negli anni Cinquanta, mentre gli italiani presi dalla frenesia del boom economico facevano piazza pulita del non-moderno, ci fu chi, come il Luciano Bianciardi della Vita agra, intuì fin da subito le insidie celate dietro tutto questo “nuovo”, comprendendo in anticipo che ci saremmo presto trovati prigionieri di una logica spietata, al limite del disumano. Una visione cupa, decisamente in contrasto con quella dei tantissimi che cominciarono a confluire nelle grandi città sicuri di potersi godere anche loro le allettanti promesse del dopoguerra.
Tornare a raccontare oggi quel boom di cui siamo figli, anzi ormai nipoti, comporta quasi obbligatoriamente l’adozione di nuovi punti di vista. La fuga dal provincialismo, l’anelito a una vita migliore e più civile, l’asservimento totale del singolo cittadino al tritacarne capitalista hanno bisogno, per toccare le nostre corde, di piccoli spostamenti emotivi, lievi e inattesi sussulti di poesia o – al contrario – di demistificazione.
Bestie in fuga di Daniele Kong, pubblicato da Coconino Press, compie un ambizioso passo in questa direzione, raccontando la sconfitta della “paesanità” tramite il cavallo di Troia della “nuova civiltà” con uno sguardo che tende a rimettere in discussione i molti, forse troppi, cliché sul tema. Kong non idealizza la fuga delle sue bestie ma si concentra sul tradimento che questa rappresenta, verso i propri cari, verso la propria terra, ma prima di tutto verso sé stessi.
Senza scadere in quel semplicistico – e ahimè ancora diffuso – conservatorismo che idealizza il vecchio per demonizzare il nuovo, le storie raccontate nel graphic novel sembrano volerci ricordare che è impossibile tagliare i ponti con l’ambiente e l’aria in cui siamo cresciuti pretendendo di sentirsi – solo per questo – già liberi. Ogni abbandono va digerito, metabolizzato e se necessario affrontato di petto, prima di poter costruire qualcosa altrove.

In Bestie in fuga questo passato da estirpare è rappresentato da Dieci, un’isola immaginaria che Kong
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