Il 24 novembre 2022 è morto Issei Sagawa, “il cannibale di Kobe”, circondato da un risalto mediatico singolare. Il caso di cronaca che l’ha reso celebre risale al 1981, quando uccise, stuprò e divorò parti del corpo di una sua compagna di corso alla Sorbona, la studentessa olandese Renée Hartevelt. Il trentaduenne giapponese venne sorpreso dalla folla in un parco di Parigi mentre tentava di liberarsi dei resti del corpo della ragazza stipati in valigie troppo pesanti per il suo fisico esile. Sagawa fu considerato infermo di mente da un tribunale francese ed estradato in Giappone, dove fu giudicato affetto da un disturbo della personalità e rilasciato dopo appena quindici mesi di carcere. In patria, l’uomo divenne presto un fenomeno mediatico: autore di bestseller autobiografici, protagonista di film e spot televisivi kitsch, editorialista per un giornale nazionale e ispiratore di manga macabri. Una sua intervista pubblicata sul canale YouTube di «Vice» dieci anni fa conta più di diciannove milioni di visualizzazioni ed è un documento sconvolgente sui desideri atroci che abitavano quel corpo minuto, dotato di una personalità in apparenza docile e afflitta da un senso di colpa egoriferito.

La prima impressione che ci lascia Sagawa è assai diversa dall’immagine del cannibale derivata dall’atavismo dell’antropologia criminale lombrosiana con i suoi volti esasperatamente animaleschi. Nell’omicida giapponese c’è qualcosa che trascende l’immaginario occidentale dell’antropofago primitivo o psicopatologico, un tratto innocuo e femmineo che insinua una sospensione del giudizio sulla sua capacità di compiere un male tanto mostruoso e, iconograficamente, sempre declinato nei termini della mascolinità, da Saturno ad Hannibal Lecter. A quarant’anni di distanza dall’omicidio, riusciamo a intravedere, dietro la debolezza esteriore di Sagawa, una violenza affine a quella che abbiamo imparato a riconoscere sui volti spenti degli adolescenti protagonisti delle stragi nelle scuole degli Stati Uniti. Un personaggio finzionale ispirato al Sagawa degli anni Ottanta potrebbe essere più congeniale agli incubi occidentali del Duemila.Troppo fragile per l’ideale muscolare del criminale di fine Millennio e troppo goffo per ricordare un archetipo narrativo alla Hannibal, il cannibale di Kobe sa spaventare come gli esseri evanescenti che popolano le parti più oscure di internet. Considerando il rapporto di Sagawa con la fama, viene da chiedersi che ne sarebbe stato di lui nell’era dei forum e delle chat anonime. Nell’ambiente mediale contemporaneo forse Sagawa non sarebbe stato troppo diverso da Luka Magnotta, il protagonista patologicamente istrionico della docu-serie Don’t F**k with Cats: Hunting an Internet Killer. Dopo un apprendistato fatto di torture letali su dei gatti condivise su internet, Magnotta ha ucciso un giovane studente cinese residente a Montréal, ha abusato del suo cadavere, ne ha smembrato il corpo, ha pubblicato online un montaggio delle torture e ha spedito parti del cadavere a scuole ed enti istituzionali. Secondo gli inquirenti, il video integrale testimonierebbe atti cannibalistici sulla vittima. La domanda, forse un po’ ingenua e inopportuna, che non riesco a non pormi è che cosa avrebbe aggiunto all’orrore di tutto il resto il cannibalismo? C’è qualcosa che Magnotta non sentiva come appartenente al suo Ideale dell’Io ipertrofico in questo ultimo atto atroce che rimane fuori campo, come un gesto che lo fa vergognare? 

Tutti sono ossessionati dalla permanenza delle proprie vittime come feticci che completano le loro identità

A differenza di Magnotta, i tre cannibali più noti nella cultura popolare contemporanea, ovvero Issei Sagawa, Jeffrey Dahmer e Armin Meiwes, sono accomunati dal bisogno di assorbire l’altro, quasi fossero inconsciamente attratti dall’aspetto rituale dell’antropofagia, dal suo potere di appropriazione mistica dello spirito dell’altro. Tutti sono ossessionati dalla permanenza delle proprie vittime come feticci che completano le loro identità. Armin Meiwes, l’ultimo in ordine di tempo, ha trovato su internet una vittima consenziente, tanto che  il cosiddetto “cannibale di Rotenburg” inizialmente condannato a soli otto anni per suicidio assistito, con sentenza definitiva fu condannato all’ergastolo per omicidio volontario. Meiwes ha sempre affermato di aver cercato con scrupolo la consensualità della sua vittima, quasi a voler stipulare un patto dall’aurea eucaristica (i due si cibarono del pene evirato della vittima prima della sua morte per dissanguamento) che passa attraverso la messa in scena splatter di un martirio liberatorio per la parte sadica e quella masochista. Sagawa e Dahmer, al contrario, hanno cercato vittime ignare e impotenti. Sagawa spara alle spalle della sua compagna di corso, mentre Dahmer droga le sue vittime dopo averle selezionate tra giovani o giovanissimi, nella quasi totalità di origine afroamericana, latina o asiatica e membri della comunità gay durante l’esplosione dell’epidemia di Aids. Sebbene si sia sempre rifiutato di confermare questo sospetto, Dahmer ha sfruttato la discriminazione sistemica subita dalle sue vittime, la cui scomparsa destava poca attenzione nelle forze dell’ordine, come denunciato dalla serie Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story di Ryan Murphy.

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Nonostante Dahmer sia stato di gran lunga il cannibale più prolifico in questo trio, la serie di Murphy non si concentra sulla compulsione cannibalistica del suo protagonista. La carne umana è presente come un’allusione: il dettaglio di una bistecca di cui non si conosce la provenienza, l’odore di cadavere che si insinua nel condominio in cui Dahmer vive, gli attrezzi da macellaio. Questo fuoricampo rende la carne umana onnipresente e, allo stesso tempo, invisibile come l’aria satura di decomposizione in cui Dahmer è immerso. Murphy vuole restituirci il ritratto di un mostro meccanico, condannato alla ripetitività di un gesto di distruzione di cui rimane impossibile chiarire le cause. È come se Dahmer ricercasse nella profanazione di un cadavere il ricordo infantile delle vivisezioni compiute sotto la guida di un padre anomalo, ma affettuoso e, contemporaneamente, è come se questa abitudine a squarciare le interiora degli animali non fosse sufficiente a spiegare la disumanità robotica di Dahmer. 

Il mio primo incontro col cannibalismo è stato un mix di cronaca e finzione. Si tratta del film Alive (Frank Marshall, 1993), la storia vera della squadra di rugby uruguayana che nel 1972 precipitò con un volo aereo su una catena andina. Terminate le provviste, i sopravvissuti decisero di cibarsi dei corpi dei morti nell’impatto. Cercando online interviste ai sopravvissuti, ho incrociato un’infinità di volte commenti contenenti la parola “resilienza”. Nella libera trasposizione del romanzo di Piers Paul Read, Tabù – La vera storia dei sopravvissuti delle Ande, il cannibalismo di sopravvivenza si trasforma in un atto di fede verso la vita, messo in scena con richiami espliciti alla comunione eucaristica. Tanto il film quanto i documenti online attestano l’afflato vitalistico dei sopravvissuti, quasi che il dramma morale di mangiare un essere umano fosse annullato dalla speranza di resistere al dolore. Il cannibale (anti)eroe della sopravvivenza a ogni costo è un tema con cui si confrontano due serie tv recenti che vivono un legame con la realtà per la verosimiglianza degli eventi narrati connotati, però, da aspetti soprannaturali che trasformano il cannibalismo in una forma di trasgressione mitica del legame civile. La prima stagione di The Terror e la serie Yellowjackets raccontano un peccato contro la sacralità del corpo umano, sanzionato da un destino che chiede vendetta per i corpi divorati in nome della vita. 

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Amare con tutta l’intensità della giovinezza significa sempre muoversi lungo un filo sottile tra l’indistizione con l’altro e l’affermazione del proprio io

Evidentemente c’è un bisogno diffuso di ripensare al significato del gesto cannibalistico nell’immaginario finzionale al di fuori delle logiche contrapposte del macabro (l’assenza di spettacolarizzazione dell’antropofagia in Dahmer) e della resilienza (il fato che ritorna per punire gli affamati in The Terror Yellowjackets). C’è stata una fase, alla fine del Novecento, in cui il cannibalismo si era fatto allegoria della bulimia capitalista, penso a film come Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (Peter Greenaway, 1989) o The German Chainsaw Massacre (Christoph Schlingensief, 1990), in cui la carne umana viene simbolicamente consumata dall’ingordigia capitalista che vorrebbe tutto immerso nella smodatezza immorale del mono-sogno del successo individuale. In tempi più recenti questo simbolismo ha lasciato spazio all’emersione di quella che potremmo definire la figura del “cannibale-incompreso”. Da Lasciami entrare (Tomas Alfredson, 2008) a Bones and All (Luca Guadagnino, 2022), l’antropofago assume tratti adolescenziali ed efebici che dicono qualcosa di interessante sullo spostamento delle paure del pubblico e su quel senso di profonda estraneità che le generazioni adulte sentono in relazione a figli mai così comunicativamente lontani, anche rispetto a temi come il genere e la sessualità. Chi vuole “diventare grande” in un mondo che vuole escluderlo, così come chi vuole sopravvivere a una fine in apparenza inevitabile ha in sé qualcosa di spaventoso, una forza distruttiva che negli anni Duemila è stata rielaborata in una narrazione romantica dell’atto cannibalistico, trasfigurato nel bisogno straziante di essere se stessi oltre i limiti che gli altri attribuiscono alla sfera sacra del normale. Per questo il tema dell’amore entra con forza in questo tipo di narrazioni, quasi a dirci che amare con tutta l’intensità della giovinezza significa sempre muoversi lungo un filo sottile tra l’indistizione con l’altro e l’affermazione del proprio io.

Cronaca e finzione sembrano stare su due binari paralleli che viaggiano però nella stessa direzione, verso il cuore oscuro del desiderio che vuole incorporare l’altro fino a renderlo indistinguibile da sé.

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