Dal 30 novembre al 1 dicembre 2024 si è svolta la decima edizione di “Laventicinquesimaora.”, il premio letterario di Belleville dedicato ai racconti brevi. I candidati hanno avuto un giorno per svolgere questa traccia: 

E se fosse quel che facciamo quando nessuno ci vede – i gesti, i riti, le infrazioni – a rivelare la nostra identità più profonda? Scrivi un racconto di 3.600 battute spazi inclusi che risponda alla domanda: “Chi siamo quando nessuno ci guarda?”

La giuria, composta da Francesca Cristoffanini, Filippo D’Angelo, Gianluigi Simonetti  e Michele Turazzi, ha scelto come vincitori i tre racconti che pubblichiamo, in ordine di classifica, qui di seguito.  

ALI DI POLLO

di Sara Noemi Superti

Sullo schermo, l’icona di una bicicletta si muove lenta verso il suo indirizzo. Emma tiene il telefono in mano. La consegna arriverà tra sei minuti. È una consegna senza contatto. Nessun bisogno di parlare, nessun bisogno di essere vista.
Quando il rider citofona, risponde rapidamente: «Lasci il sacchetto davanti al portone, grazie». La sua voce suona più ferma di quanto pensi. Lui le chiede se può aspettare che scenda, ma lei insiste: «Va bene così». Attende qualche minuto per assicurarsi che sia andato via. Allora scivola fuori dalla porta.
Nell’androne non c’è nessuno. Il sacchetto è lì, nell’angolo. Lo raccoglie e rientra, guardando a terra. Due rampe di scale percorse in apnea, poi gira la chiave quattro volte nella serratura. Solo quando è dentro con la porta ben chiusa, il respiro torna regolare.
Tira fuori dal sacchetto una scatola di cartone ancora calda e la apre con gesti veloci, nervosi. Il vapore le solletica il viso, sa di olio e spezie. Si siede, incrocia le gambe sulla sedia e accende la televisione senza badare al canale.
Le ali di pollo sono unte, croccanti, perfette. Non è una scelta casuale, e nemmeno di cui andare fiera. Ne afferra una e la morde con lentezza. Il sapore è di un’intensità violenta, insopportabile.
Ricorda quel giorno, nove anni prima. Tommaso l’aveva convinta a diventare vegana con un documentario straziante su Netflix. Il silenzio delle organizzazioni ambientaliste, uno schifo. La mente che si apriva, esplodeva di indignazione. Nella sua stanza, nella casa che divideva con altri studenti, loro due sul pavimento, l’ultimo pasto a base di carne: un cesto di ali di pollo fritte. Lei rideva perché lui si era sporcato le dita e le aveva macchiato la maglietta. Deve averla ancora da qualche parte nell’armadio, mai riuscita a farla venire pulita.
Il telefono vibra. Emma sobbalza. Un messaggio di Giulia: Ho trovato delle statistiche interessanti sull’inquinamento da allevamenti intensivi. Perfette per i volantini.
Emma risponde d’istinto: Ottimo, mandamele. Il grasso le appiccica i polpastrelli allo schermo. Si lecca le dita, poi si asciuga le mani su un tovagliolo.
L’odore di fritto si espande, soffocante. Si sente a disagio, in colpa. Guarda di nuovo il telefono. Il post di Tommaso è ancora lì, l’ha visto nel pomeriggio. Primo anniversario con tagliata e vino rosso. Lui sorride, il viso aperto, gentile; i capelli della moglie brillano sotto i faretti del ristorante. Gli occhi di Emma si soffermano sul cibo: l’alone rosa del sangue sul piatto bianco.
Chi sarebbe lei se lui non ci fosse mai stato? Tutti quegli anni! Gli anni della giovinezza! Con quale facilità si è lasciata andare, ha creduto a una promessa a base di ali di pollo da fast food. Tipico di lei portare tutto all’estremo, fare di un piccolo momento il motivo fondante di un’esistenza. Paladina del movimento vegano, attivista sui social e in politica, i gruppi di lavoro sul benessere animale. Scoprire che porti avanti la tua vita su un inganno, mentre lui sorride davanti a un piatto di carne. Bugiardo, traditore!
Emma chiude la scatola, la infila nel sacchetto e la butta nella pattumiera. La nausea le sale dallo stomaco, mescolata a una strana, imbarazzante sensazione di pienezza. Il sapore di fritto sulla lingua. Si sente sazia e vuota allo stesso tempo. Chiude gli occhi. Respira. Nessuno l’ha vista.
All’improvviso, si alza, recupera il sacchetto dalla pattumiera. Lo posa sul tavolo. Scatta una foto: il grasso sul cartone, le ossa spolpate. Basterebbe poco per fare qualcosa di veramente onesto. Il tasto Condividi azzurro intenso sembra pulsare.

PELLE DI VIPERE

di Roberto Rossi

Erano i giorni in cui l’Isaurico regnava sul trono di Costantino.
Ero novizio in uno dei monasteri fuori Tessalonica, in vista dell’Olimpo, piccola scaglia dell’armatura che è l’ecclesia di Dio.
Il viandante giunse al monastero dal mare. Portava una bisaccia, colma di tavole e tinture.
Il decano convocò i presidi delle sette famiglie della comunità, ma lo spirito dell’assemblea era diviso. L’Isaurico aveva proibito il culto delle immagini. I fanatici ne condannavano persino la creazione. Gli antichi devoti adoravano invece le icone come riflesso della presenza divina. Queste idee si erano scomposte nell’animo dei presidi, amalgamandosi nel cuore del decano, confuse. Infine, l’assemblea decise di dare asilo al pittore d’icone, ma a una condizione.
Nessuna delle sue immagini doveva esser vista fuori dal monastero.
Lui rispose: «Neppure l’occhio di Nostro Signore ne sarà testimone».

Tre mesi dopo, lo vidi dipingere.
Colmava i sacri fondali con la luce della foglia d’oro, imperlata di delizie del giardino terrestre. Al centro, un Cristo pantocratore, immandorlato in una cerchia di trombe e cherubini. In quel trionfo, ogni occhio era dipinto di bianco.
Tremai, scosso da quel frastornante vuoto.
«Se l’occhio divino non si riflette, l’occhio divino non vede» mi sussurrò il pittore. Mi passò quindi tra le mani una delle sue opere, un Santo Spirito bendato che discendeva sul Figlio, il Padre benedicente, lo sguardo d’entrambi serrato.
Alla presenza d’un Dio che non vede, le ore nella mia cella riebbero nuova vita.
Il dolore delle mie ginocchia divenne solo mio, spogliandosi degli ebbri furori della penitenza. Giungere le mani in preghiera mi fece riscoprire il tocco umano da quando i giorni al seno di mia madre erano sfioriti. I cavalli della mia anima corsero al galoppo, spronati da un auriga straniero.
Mi chiesi: «È peccato?». E mi concessi il piacere di non rispondere.
Ricordo quando quella gioia ebbe fine.
Il decano aveva convocato le sette famiglie nel refettorio attorno al pittore e alle sue icone.
«Sono stato a Tessalonica, oltre la collina,» gridò il vecchio, «e testimonio che una delle tue immagini cieche stava nelle sale del Patriarca! Il nostro patto è tradito».
Il pittore tacque, concedendosi un amaro sorriso. Sapeva il motivo di quella menzogna. Tutti avevamo visto come tra i monaci si era abusato della cecità divina. Quanto più l’occhio di Dio era assente, quanto più quello del monastero s’era fatto meschino.
Incrociai le braccia al petto, battendomi le scapole con le mani. Rallentai il respiro. Dal cuore, gettai il panico fin giù nelle viscere.
Il decano nel mentre dava fuoco alle pitture. La terza famiglia intonò un salmo penitenziale. Le altre sei risposero in coro, fondendosi in una sola voce. La lingua mi si annodò, il petto che tremava. Poi tutto, come un brivido, mi scosse dai piedi alla cima.
Allora capii. Tutta la sala tremava.
Svincolato dalla litania, fuggii.

Nessun altro sopravvisse al terremoto. Neppure il pittore.
Tre giorni dopo, a Tessalonica, scoprii che anche la Città di Costantino era stata sconquassata dall’ira celeste. L’Isaurico aveva a malapena domato la rivolta. Ma ora tutti si era certi che la sua furia contro le immagini era stata punita.
Da allora, vago per le terre alle pendici dell’Athos. La mia sarà una lunga cerca. Per questo seguo le leggende degli antichi: mi nutro di pelli di vipere, come gli abitanti di questo monte, capaci di vivere fino a quattrocento primavere. Basterà questo tempo per sentirmi di nuovo libero, libero da ogni sguardo – libero dall’occhio divino?

QUANDO NESSUNO GUARDA

di Simonetta Gallucci

Spalanca la porta d’ingresso come se dovesse sorprendere inquilini indesiderati alle prese con un conciliabolo, e se la richiude alle spalle come se fosse braccata e dovesse mettersi in salvo: entra in casa così, la Strabica. Non è certo questo il suo nome, ma è abituata a sentirsi chiamare in tal modo, alle spalle e persino in sua presenza. Per questo il mondo che conosce è grigio asfalto e marrone merda di cane. Cammina con gli occhi puntati a terra: troppa è la paura che, alzando lo sguardo al cielo, porgendo il viso al sole, qualcuno le ricordi ciò che le sarebbe comunque impossibile scordare: gli occhi castani che puntano uno a destra e l’altro a manca, che abbracciano la visione frontale e quella periferica, vedette vicine e spaiate di quel panottico che è la sua testa. Persino gli uomini che ha amato o che, vagheggiando, ha sperato la amassero, al culmine del desiderio pareva volessero accecarla e, non potendo, le ingiungevano: «Chiudi gli occhi». La Strabica, obbediente e devota, accoglieva la richiesta per comando, deplorevole conditio sine qua non per godere dell’altrui godimento.
Al suo nessuno ci badava ieri, figurarsi oggi che i primi segni della giovinezza che sfiorisce si affacciano sulla pelle di rosacea anziché di rosa, sul corpo sformato più che formoso. «Che me ne faccio di chi non mi vuole?» si chiede mentre, spalle contro la porta, scalcia, libera i piedi dagli stivali. Distende le dita, con la pianta che aderisce ai listoni del parquet, poi, quasi danzando, lascia cadere la borsa sul divano, sfila la giacca e allunga lo sguardo alla nebbia che si sta alzando in cortile e si mischia ai fumi delle stufe a pellet che qualcuno, col primo freddo, ha già acceso. E ancora oltre: alle tapparelle chiuse, alle gelosie aperte delle persiane, fino a quell’unica finestra che, da giorno a sera, estate e inverno, rimane sguarnita, con la fissità di un gufo orbo.
O di un occhio di bue a riposo.
«Arrivo» dice la Strabica, ma intanto si muove nella direzione opposta. Si chiude in una camera da letto tutta bianca, dal pavimento coperto di tappeti immacolati e morbidi, come orsi polari addormentati. Ne emerge poco dopo, vestita solo di un kimono rosa antico. Torna alla finestra, guarda ancora dall’altra parte, all’orbita scura dell’appartamento di fronte al suo; scosta le tende del suo personalissimo sipario ed entra in scena. Slaccia la cintura, scopre una spalla, poi l’altra; la vestaglia a mo’ di scialle, mentre le sue mani accarezzano il collo, scendono sullo sterno e raccolgono i seni. Non tiene la testa bassa, no: il mento a perpendicolo punta alla finestra dirimpetto, gli occhi superano la barriera dei vetri chiusi e mirano al centro di quel buio. Lo scrutano, lo fissano e, talvolta, riescono persino a distinguere i contorni di una figura umana, benché l’appartamento sia disabitato da anni.
«Ma chi può dirlo?» pensa la Strabica, convinta di aver scorto il biancore delle sclere che, se non fossero così distanti, potrebbero essere un riflesso delle sue. «Ma che importa? A chi importa?» ripete, con gli occhi spalancati e le dita che premono sul ventre, afferrano i fianchi, pizzicano i glutei e si mettono a giocare coi peli arricciati del monte di Venere. Una mano si stacca per aggrapparsi al davanzale. La Strabica può chiudere gli occhi, non più per dovere: la sua pelle è cosparsa ora di dieci, cinquanta, cento minuscoli occhi che si aprono sullo spettacolo e sul fremito di piacere che le dà vedersi, sentirsi, percepirsi lì, in piena vista, quando nessuno guarda.