Ho sempre avuto paura di voi.
L’ombra del volo sulle facciate,
le piume nelle scale, il battere sordo
delle ali intorno al corpo pieno
di organi e viscere come umani.
La minaccia costante nelle strade
di essere colpiti, di essere sfiorati.
I muscoli in allerta, le pupille dilatate.
La testa inchiodata a un solo pensiero.
Com’è possibile difendersi da ciò
che ci minaccia o ci reclama dall’alto.
Qui dove vivo resistono molte specie,
e molti canti. Costruiscono nidi
sui tetti delle chiese, accanto alle discariche,
vicino agli scoli delle fogne in mare.
Da qualche tempo li osservo alla finestra
nei pochi spazi verdi tra i palazzi. Li cerco, li aspetto.
Sono passeri o merli. Se ne stanno nascosti tra i pini.
Di notte, invece, i gabbiani volano sulla piazza
alti fra grandi strepiti. Li seguo, li accompagno
mentre scendono in picchiata, li vedo
attaccare i piccioni, colpirli al petto, al collo,
e loro inermi si schiantano sopra tetti o terrazzi.
All’alba restano ali e cartilagini sulle auto parcheggiate.
Legge di natura, interessi della specie, pare,
ma a volte c’è qualcosa di più, o di meno,
qualcosa che ha a che fare con la noia.
Di giorno i piccioni invadono i tavolini,
arpionano bicchieri, rovesciano cestini
nella città infestata dai turisti.
Lo sguardo stupido, le zampe mutilate.
A volte si fanno trovare nei vicoli laterali
sfondati dai motorini di passaggio. Le carni
esposte tra le piume impiastricciate
di rosa senza sangue. E ogni volta è un conato,
una persecuzione dello sguardo che distolgo
mentre cerco di non calpestarli e mi domando
chi raccoglierà quei resti, chi li rimuoverà all’alba,
se finiranno nell’umido o nell’indifferenziato.
Ad aprile sono arrivate le rondini, velocissime.
Nella luce arancione disegnavano
cerchi nello spazio. Nello slargo della piazza
si rincorrevano felici o furiose, non saprei dirlo,
sfiorando di fretta balconi e finestre,
mentre un frastuono, non un canto,
ricopriva ogni altra voce della città.
Si posavano il tempo di una spinta
tra le pietre di tufo e di piperno,
un attimo, prima di tornare a sgolarsi
nel coro infuriato delle altre, come a margine
di una tragedia o di una commedia
allestita nel vuoto dell’aria.
Troppo prese, loro, troppo indaffarate,
per morire o fare del male.