«L’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria». Lo annunciava nel 1932 Fortunato Depero, il futurista che disegnò le graziose bottigliette del Campari e fu geniale pubblicitario, in primo luogo di se stesso – inventò il book autopromozionale con il famoso “libro imbullonato”. Mi è tornato in mente in questi giorni pensando alle fotografie di Oliviero Toscani.

Depero aveva visto giusto. Il matrimonio tra arte e pubblicità è stato uno dei più importanti del Novecento. Ha rivoluzionato non solo il mondo dell’arte, ma la società reale, condizionandone i costumi, la politica, le dinamiche economiche. Dal frigorifero di casa nostra alle campagne elettorali, dal maglione che indossiamo al marketing delle multinazionali, dagli uffici di politiche urbane ai profili social su cui anche noi ci autopubblicizziamo: non c’è dimensione della vita contemporanea che possa dirsi immune dall’arte dell’influenza di massa. Ancora fino al secondo dopoguerra si chiamava propaganda: lo stesso termine con cui la chiesa organizzava la propagazione della fede, e il fascismo quella della sua ideologia. Parlare neutralmente di comunicazione, come si fa oggi, significa in realtà negare il fenomeno, perché se ne perde la dimensione celebrativa e strillata: l’arte della réclame deriva direttamente dalle grida del pescivendolo al mercato.

Con le fotografie di Toscani si compie una staffetta ideale che comincia con il futurismo e passa per la Factory di Andy Warhol, di cui Toscani fu amico, ritrattista e brillante discepolo. (Ma la visione di Warhol, ci tengo a dirlo, è più profonda, complessa, ambivalente e affascinante). Basta con i romanticismi per vati o disadattati! L’arte produce valore economico, e come un lavoro deve essere pagata. Abbasso i Supremi Valori dello Spirito, evviva gli idoli effimeri della moda e degli oggetti di consumo. E soprattutto: provocazioni, scandali! «La provocazione», ha scritto Toscani, «è positiva, significa provocare una reazione, un interesse, amore, energia, economia». Ma è anche vero che, quando monta come un bombardamento a tappeto, diventa qualcos’altro. Shock and Awe, sciocca e terrorizza, prescrive la dottrina militare che mira alla distruzione immediata dell’avversario. 

© Oliviero Toscani, Lorenzo Milani insieme ai suoi studenti di Barbiana, 1959

La pubblicità aspira a realizzare il sogno condiviso dalle avanguardie estetiche, dai missionari gesuiti e dai dittatori: conquistare il mondo con arte. Delle campagne totalitarie, quelle iperlibertarie di Toscani condividevano un aspetto non trascurabile, oltre all’aggressività e alla pervasività: le dimensioni. Il contrasto tra la tolleranza pluralistica affermata in quelle immagini colossali e il fatto che noi cittadini fossimo costretti a ritrovarcele ovunque, unito alla disorientante indistinzione tra spazio pubblico e interessi privati, tra Made in Italy e valori cosmopoliti, sono alcuni dei tanti paradossi creati dal toscanismo. Il più eclatante è quello del sacro. Sbeffeggiato dal gigantesco culo femminile in hot pants che benediceva evangelicamente la città dall’alto dei cartelloni, tornava a trionfare nelle forme e nella finalità della comunicazione allegorica. Icone, sacri cuori, pietà, putti, bambinelli, madonne allattanti, cristi pantocratori – tutti profeti o testimoni della nuova religione a venire: la fede tollerante, multiculturale, antirazzista, antiomofoba, pacifista, dei Colori Uniti Benetton.

Anche su questo si era già espresso Depero: «Io paragono il cartellone al QUADRO SACRO dei secoli scorsi; voi industriali siete i nostri vescovi e papi d’una volta, i nostri autentici mecenati».

Forse solo un paese di memoria cattolica e fascista poteva produrre, e amare, lo stile delle pubblicità di Toscani. Che infatti, nel suo ultimo libro autobiografico, raccontava di aver scoperto la propria vocazione da bambino, stregato dagli affreschi sui muri delle chiese e dalle rappresentazioni devozionali: «non serviva una preparazione teologica e iconografica per comprendere visceralmente la potenza di quelle immagini». L’arte della provocazione, invece, diceva di averla presa dal padre, fotografo antifascista che giocava al gatto col topo insieme al regime: «era una strategia di marketing, un tacito accordo. Ai fascisti faceva comodo che circolassero immagini più provocanti ed eccentriche, meno freddamente istituzionali». 

“Ma come?” mi chiederete “non ci dici niente della trasgressione e del coraggio? Dell’anarchia? Del talento visionario, dell’immaginazione?”

“La mia è solo una provocazione: serve a far riflettere le persone” risponderò come faceva Toscani.