Nella tragedia verticale dell’esistenza che procede dritta tra indicibili dolori, fisici e morali verso la morte, è consolatorio tornare a casa a tarda notte, oppure svegliarsi la mattina presto, magari con un forte mal di testa, e pensare: quanto mi sono divertita. Questo in genere non vuol dire solo che ci si è divertiti nel senso stretto del termine. Anzi, il più delle volte vuol dire che si è riusciti a intravedere per un attimo la tragedia dell’esistere nella sua forma più cristallina. Dentro le parole di un attore di mezza età, nell’entusiasmo feroce di un ventenne, nel silenzio di una via o di una piazza, nell’impossibilità di un amore che per il tempo di una sigaretta, o anche solo di uno sguardo, poteva essere tutto. Salvami piccola fenice dai lunghi capelli neri, apriti per me, non te ne andare. E invece tu ridi, non smetti di ridere, ridi con me, ti tieni i vestiti addosso e non fai altro che ridere.

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Ho iniziato a leggere le Metamorfosi di Ovidio e non riuscivo più a smettere. Per questo ho deciso di scriverci un articolo, così da farne leggere a tutti almeno una ventina di versi. Li ho trascritti lì, sul file word, e ho pensato: ne ho messi troppi, più di quanti mi servivano a dimostrare ciò che volevo dimostrare. Molti di più. Ho pensato: vabbè, me li taglieranno e amen. Io non volevo eliminarne neanche uno. Non li ha tagliati neanche il redattore della rivista, ed ora, forse, saremo un po’ di più a leggere le Metamorfosi senza riuscire a smettere. È un altro modo di divertirsi, ma anche di credere che le nostre parole non potranno mai essere abbastanza. Potrebbe renderci tristi sapere che non saremo mai all’altezza di Ovidio, ma preferisco credere che ci rallegreremo della sua esistenza, felici di sapere che non siamo stati sempre e solo calciatori, attori, startupper o informatici. Ho letto Ovidio e per questo ogni tanto sono riuscita a divertirmi.

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Allora vedi, ad esempio, qualche settimana fa sono stata a Roma. Il mattino prima di ripartire mi sono svegliata disidratata e affamata, nel mio hotel in via Nazionale. Mi sono alzata e ho guardato fuori: in basso le macchine andavano dritte. Poi mi sono sdraiata di nuovo accanto a F., ero mezza nuda ma non avevo freddo. Avevo ancora sonno ma non avevo nessuna voglia di dormire. Volevo vestirmi alla bell’e meglio, prendere una tachipirina per il mal di testa, scendere e cercare una pizzeria per mangiarmi un pezzo di pizza patate e rosmarino. Verso l’Esquilino, magari, buona come la fanno solo a Roma, che poi mi toccava tornare a Milano e già non ne avevo voglia. F. – ho detto, toccandogli la fronte amara, che sembrava scorticata dai sogni – quanto mi sono divertita ieri sera. Lui anche era mezzo nudo, ma dormiva (un altro modo di divertirsi) e non so se mi ha sentita.

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A Roma sono stata perché F. debuttava all’Opera. Credevo che non avrei bevuto ma poi l’ho fatto. Tutto è andato bene e io mi sono divertita. Ci sono state ben due feste la sera della prima e io ho partecipato a entrambe. Chiamando dei taxi, prendendo la metro e camminando, ovviamente. Più mi spostavo più sentivo che quella città mi apparteneva. Era pronta con le sue chiese, e con i semafori, a diventare tutta mia. E se la ragazza dagli occhi verdi non si fosse slacciata i pantaloni per me, senza dubbio l’avrebbe fatto la città. Occhi accidentati di accidentate promesse. Promettono che il desiderio diventi piacere e il piacere desiderio. Promettono, promettono questi corpi bianchi, marmorei, affusolati. Sono solo corpi fatti di atomi. Brillano sotto le luci stroboscopiche, quando passano sotto i lampioni, e anche alle prime luci dell’alba, quando un tassista che sembra un traghettatore ti porta via da un Circolo Sportivo dove si è tenuta una festa dalle parti di via del Foro Italico. Tu da ore eri chiusa negli spogliatoi, e fuori si è fatto giorno, e ogni cosa brilla come la fame, come la sete, come una preghiera storpiata da una memoria incerta. Ma questa era un’altra volta, un’altra Roma. Ora quei corpi brillano ma non possono promettere niente.

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Camminando per la città F. mi ha detto: guarda, quello è un giornalista famoso, sta con quel ragazzo che avrà quindici anni. Ma io non conoscevo il giornalista e non vedevo il ragazzino. Un’allucinazione uscita dai sogni di F. (quanto è diversa la realtà di due persone che pure la condividono? Questa mi è sempre sembrata la cosa più bella dell’amare qualcuno). Io quel giornalista non lo conoscevo e vedevo solo un affollamento di uomini e macchine davanti Palazzo Colonna. La terza festa? Era terribile pensare che me la stessi perdendo. Ho lasciato F. all’angolo a contemplare gli esseri dei suoi sogni e sono andata verso la folla di autisti in abito elegante senza distrarlo dal suo fantasticare. Sapete la vita com’è, la vita e tutto il resto. Se c’è una festa non fatemela perdere. Già durante l’estate, quando la gran parte delle persone che seguo su Instagram prende aerei e fa ore e ore di volo per andare chissà dove, chissà perché, io mi chiudo in questo piccolo paese sul Conero, dove trovo la forza per non uccidermi e tornare nel mondo a settembre. Dove passo l’estate a leggere, a fare lunghi bagni al mattino presto e alla sera tardi, e ad annoiarmi. Di chi è la festa? – chiedo. Di certi brasiliani, rispondono gli autisti. Brasiliani famosi? – chiedo. Brasiliani ricchi, rispondono loro. Allora fatemi entrare a questa festa di brasiliani ricchi che festeggiano il matrimonio di una sessantenne con un gigolò. Oppure sì, se preferite, raccontatemi le vostre vacanze. Vi si sono illuminati gli occhi quando ho nominato il Conero, i più reticenti tra voi, quelli che stavano in disparte, quelli che si fingevano disinteressati a questa ragazza mezza matta che aveva così tanta voglia di chiacchierare, ora si sono avvicinati, perché ci siete stati anche voi sul Conero, da piccoli o quando erano piccoli i vostri bambini. È un posto dove non avete guidato la macchina per nessuno se non per voi stessi, dove per il tempo della vacanza siete stati felici. Dietro di voi i Mercati di Traiano ci stanno promettendo qualcosa, e anche prima l’Altare della Patria, e prima ancora Campo dei Fiori dove si è tenuta la seconda festa. Tutte queste cose ci guardano piene di promesse e voi gli date le spalle, guardate me, e dietro di me le luci rosse e intermittenti nel cortile di Palazzo Colonna, e avete gli occhi pieni di memoria. La memoria vi sta addosso come una maledizione. Ma certo, sono d’accordo con voi, come si mangia sul Conero in pochi altri posti al mondo.

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Per questo non faccio tutte quelle ore di volo. Non solo per la paura, anche se lasciarsi sovrastare dalla paura è una condizione che mi entusiasma. 
Sono solo brasiliani ricchi, mi dice F. che finalmente mi ha trovata. Si stanno divertendo, dice F., ma non noi, noi non potremmo divertirci lì dentro. 
Io provo a guardarli quei corpi, lontani, oltre le arcate dell’ingresso, attraverso le mura. Cerco di unirmi a loro, cerco di capire se F. ha ragione o sta mentendo. Poi mi volto verso gli autisti: e anche voi – dico – anche voi vi siete divertiti.