Un sigaro cubano tra le dita, un paio di folti baffi scuri, jeans e una giacca nera di pelle, la voce lievemente cadenzata e graffiata dal tempo. Quando mi dà appuntamento al Salone del Libro di Torino allo stand della casa editrice Oligo di Mantova che ha dato alla luce il suo Bestiario habanero. Itinerari sbiecati di una capitale, e per cui dirige una collana di scrittori cubani contemporanei, lui, Davide Barilli non c’è. Dove sarà finito in questo fiume di gente? Vado in cerca di lui. Infine lo trovo seduto, su una sedia da esterni di plastica bianca, in un piazzale, tra un padiglione e l’altro, una birra in mano e un sigaro gigantesco nell’altra, che guarda paziente, da un piccolo rialzo, questo fluire di persone di ogni genere. Come dal bordo di un torrente. Il suo sguardo attento – un paio di occhi che ricordano Tom Selleck prima del tramonto – scruta per riconoscere in quella fiumana qua e là qualche volto familiare. Ogni tanto chiama qualcuno per nome a voce alta. Qualcuno sente e si volta, qualcun altro no. Mi siedo accanto a lui e mi regala la sua birra. Protesto perché non mi sembra il caso, ma lui ritrova, non si sa come, un bicchiere di rum. Un trago, come si dice. Un sorso. E festeggiamo come due vecchi amici che si ritrovano dopo tanto tempo e non come se ci conoscessimo da pochi secondi, così anch’io prendo a osservare questo passaggio di persone, come un film. Piano piano prende forma il suo racconto cubano a cui mi avvicino come se scorgessi, prima da lontano e poi da vicino, un quadro nella veduta di insieme, poi con tutti i particolari. Prende posto, accanto a noi, dopo esser stato pescato dal fiume, anche il docente universitario e scrittore Vittorio Falletti, anche lui amante di Cuba, che mi mostra, dal telefonino, la foto di un babalawo, il colorato sacerdote Yoruba che ha incontrato e interpellato per le vie della capitale cubana. Il discorso si snoda per le strade habanere in cui occorre addentrarsi come viandanti giammai come turisti, si raccomanda Davide Barilli: bisogna trasformarsi in rabdomanti più che avventurieri, «incontrando come in un sogno nebbioso brandelli, ombre, reliquie, relitti. Rimasugli di un tempo che ci divora, irraggiungibile e proprio per questo incalzante».

Che cosa è poi un babalawo? Ci sei mai andato? E la santeria cubana? Perché ci sono le madonne e i santi?

Parliamo di sincretismo religioso. Tutto nasce dallo schiavismo. Animismo africano e santi cattolici che si incrociano in quello che Fernando Ortiz chiama ajaco, il minestrone che caratterizza la cubania. Il bianco e il nero, il lutto e la danza, l’orrore e la meraviglia. Questa è Cuba: la mezcla, l’intruglio di opposti che si innervano. San Lazzaro è Babalu Aye, Santa Barbara diventa Chango, una sorta di magico guerriero trans. Gli emissari degli orisha sono i babalao, figure di raccordo che leggono i destini nelle conchiglie. Ne ho conosciuti tanti, di ogni fatta. Alcuni anche cialtroneschi come quello che viveva in un vecchio palazzo diroccato di cui parlo in Cuba. Altravana, al cui posto oggi sorge un mastodontico hotel a cinque stelle. Ebbene, questo babalao, oltre a divinare, vendeva ron annacquato che preparava in casa succhiando da due damigiane con una canna di gomma i due liquidi.

Sei andato in cerca del Santiago di Hemigway, tra questi tasselli sgretolati di un mosaico immaginario, che idea ti sei fatto della verità in questa stramba storia letteraria?

Lo racconto in Bestiario habanero, una sorta di quête, di ricerca infinita di un senso da carpire nelle contraddizioni cubane. Anche in questo caso ci si imbatte in una mezcla. Nomi che si incrociano, fisionomie che si sovrappongono, nella trama di un capolavoro nato da una serie di incontri – presunti o reali – e di memorie ascoltate o tramandate dai pescatori che condividevano con lui il ristorante La Terraza. L’unica verità assodata è che il soggetto era nella testa di Hemingway da molti anni e che, dopo quel primo breve racconto pubblicato nel ’36, ne rielaborò la trama fino a quando l’8 settembre 1952 la rivista Life pubblicò Il vecchio e il mare che, in soli due giorni, vendette cinque milioni e trecentoventiseimila copie, tanto che una seconda edizione fu pubblicata lo stesso giorno. Il vecchio e il mare vinse immediatamente la selezione del Book of the Month Club, dove fu descritto come un’opera destinata a entrare nei classici della letteratura americana. L’anno successivo vinse il Premio Pulitzer, preludio al Nobel per la letteratura che sarebbe stato assegnato all’autore nel 1954.

Mentre parla Barilli mi accorgo che Cuba non è che

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