All’inizio degli anni Settanta Georges Simenon rientra precipitosamente dagli Stati Uniti in Europa per assistere la madre prossima alla morte. Tra Henriette e il celebre figlio i rapporti sono complicati, segnati da molti anni di incontri diradati o assenti e dalla colpa che la madre addossa al figlio per la scomparsa del fratello (collaborazionista durante la Seconda Guerra mondiale, a cui Georges consigliò di arruolarsi nella Legione straniera, dove troverà la morte, per fuggire alla pena capitale). Qualche anno dopo Simenon scrive Lettera a mia madre, un piccolo libro in cui il creatore di Maigret, il romanziere celebrato in tutto il mondo, prova a capire il suo rapporto con la madre e le ragioni di un doloroso disamore, a partire dalle parole taglienti, “Perché sei venuto, Georges?”, che lei gli rivolge appena varca la porta della sua stanza d’ospedale. A quel punto della sua vita Simenon aveva smesso di scrivere romanzi dedicandosi esclusivamente a una scrittura autobiografica di stampo testimoniale, eppure Lettera a mia madre non è nient’altro che un ennesimo tentativo di costeggiare il mistero più caro alle storie dello scrittore belga, senza distinzione tra quelle con o senza il commissario Maigret: la materia che costituisce l’essere umano, ciò che forgia le sue scelte e il suo carattere, che anima le sue relazioni e il suo stare nel mondo.

Si tratta quindi di una linea comune che abbatte lo steccato, a dire il vero estremamente artificioso, tra il Simenon scrittore di genere e il romanziere vero e proprio, perché in fondo ogni sua pagina, comprese quelle autobiografiche, non fa che interrogarsi su questo scivoloso crinale. Muovendosi tra le indagini di Maigret sul gruppo di vecchi amici che nasconde un terribile segreto in L’impiccato di Saint-Pholiene o su una variopinta congrega di conoscenti legata da tradimenti e traffici loschi in La balera da due soldi, o tra le atmosfere più metafisiche dei romanzi duri, come il disfacimento di una famiglia in L’orsacchiotto o la dura requisitoria sulle relazioni di La prigione, l’estrema varietà delle storie, la galleria affollatissima di personaggi e comparse, e i più disparati luoghi della Francia e del mondo, rimandano sempre allo stesso sforzo conoscitivo. 

Questo tentativo di addentrarsi tra i misteri dell’agire umano trova uno dei suoi compimenti più alti in Il grande Bob (che dopo un’assenza decennale Adelphi ripubblica con la traduzione di Simona Mambrini), un libro dalla trama esilissima che si trasforma sin dalle prime righe in un romanzo di investigazione psicologica, la testimonianza più convincente del metodo Simenon. Il grande Bob del titolo è

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