«Ma quindi l’hai visto Babygirl?»
«No, non ancora, sono arrivata da poco. Poi sono già stanca: un’ora per ritirare l’accredito, mezz’ora per un caffè insipido, sette euro per un pacco di assorbenti.»
Ogni anno al Lido è un continuo rimuginare: potevo stare al mare, potevo sfruttare questi ultimi giorni d’estate per godermi le spiagge settembrine, invece sono qui, nell’afa, le file, gli spritz annacquati, i film.
«Dai, secondo me comunque ti piace. È proprio il tuo film.»
L’ultima volta che mi era stata detta una cosa del genere al Lido era poco prima della proiezione di Bones and All di Luca Guadagnino, dove immaginario western e mitologia vampiresca facevano da cornice a un racconto macabro e viscerale sulla nascita del primo amore adolescenziale. Le aspettative, dunque, erano altissime.
Dell’opera seconda di Halina Reijn (già autrice di Bodies, Bodies, Bodies) con Nicole Kidman sapevo poco e niente, solo che c’entravano sesso, age gap e ricchissima borghesia americana. La sequenza d’apertura vede Kidman protagonista di un orgasmo sfrenato insieme al marito (sfinita, sudicia ed esausta), per poi andare a masturbarsi guardando del porno sadomaso. Lo schema narrativo e concettuale di Babygirl, così come i suoi ingenui simbolismi, emergono già dai primi minuti e dal primo incontro-scontro tra Kidman e il suo giovanissimo stagista (e poi amante), in cui quest’ultimo viene notato dalla donna nel momento in cui, tra una folla impaurita, riesce a calmare una cagna dandole un biscotto e accarezzandole il muso. La macchina da presa si posa sul volto di lei visibilmente scossa ed eccitata.
Del vissuto del sadomaso – perché alla fine il film vorrebbe trattare di questo, o comunque di una visione non canonica del sesso – non rimane assolutamente nulla
Non si sa se questo momento abbia risvegliato nella donna recondite fantasie di sottomissione represse fin dalla pubertà o se siano scaturite per la prima volta guardando interagire lo stagista e l’animale. È più probabile che, semplicemente, i suoi sensi siano stati ridestati da quell’avvenimento. Del vissuto del sadomaso – perché alla fine il film vorrebbe trattare di questo, o comunque di una visione non canonica del sesso: Kidman che beve latte dalla ciotola del cane, il suo ego umiliato da quello dello stagista a cui lecca i vestiti sporchi – e della sua forza dissidente e alternativa, “spaventosa, disgustosa e inaccettabile”, come direbbe Patrick Califia, in uno dei capisaldi della teorizzazione del sadomasochismo (Public Sex. The culture of radical sex), ecco, di tutto ciò, non rimane assolutamente nulla.
Muovendosi tra timidi riferimenti a Roman Polański e Adrian Lyne, Babygirl mi sembra più che altro
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