La rassegnazione è di casa quando Sanremo è alle porte: sembra impossibile metterselo alle spalle. Giornalisti che postano foto del teatro Ariston entusiasti di partecipare alla tortura di quello che uno come Flavio Paulin, ex Cugini Di Campagna, chiama “un carrozzone”: e se lo dice lui che non c’è mai andato nonostante tutto, c’è da dargli spago. Si apre la stagione del FantaSanremo, altra follia incomprensibile, che però ci ricorda che Sanremo è una gara, niente di più. Fabrizio De André sottolineava che avrebbe avuto senso proprio se fosse stato considerato come un avvenimento sportivo, ma che parlasse di sentimenti, emozioni. Sanremo è davvero all’opposto, i sentimenti non possono essere in gara. E a proposito di opposti, negli ultimi anni si è cercato di dare a Sanremo una patina di “progressismo”, mettendo l’accento sulla presenza di personaggi che a dire di molti critici si sarebbero prodigati in “gesti punk”, musica e look in linea con “il punk” (evitiamo di fare nomi, tanto li conoscete). A cosa servano questi gesti punk in un contenitore generalista come quello del Sanremo attuale ci sfugge, ma la realtà è oramai che il termine “punk” viene usato semplicemente se ti metti lo smalto alle unghie, quindi al di là di ogni significato storico e politico. Anche perché nella storia di Sanremo c’è stata sul serio una collisione/commistione con determinati aspetti del punk italiano: una fascinazione reciproca, per cui da una parte si voleva provocare entrando a gamba tesa in un luogo reazionario per eccellenza, dall’altra si voleva annettere la “contestazione” per rifarsi una verginità agli occhi del pubblico giovanile, che è quello che compra con la stessa facilità con cui si vende. Inoltre, molti di quei punk che rifiutavano l’idea di Sanremo sono rimasti fuori dalla porta per entrare dalla finestra dopo un po’ di anni, dimostrando che Sanremo è un’aspirapolvere che prima o poi, se gli dai corda, ti risucchia e ti annienta. Ma andiamo per ordine.

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