Quando si parla di sesso, o di “fare l’amore” come direbbero gli Antonello Venditti, ogni miserabile che si rispetti si nasconde dietro il vessillo della tradizione. Si tratta di un misunderstanding insopportabile, perché la tradizione ha tanti volti: è la didattica della pederastia ateniese, è la tumultuosa Abbazia di Thélema, è il rituale orgiastico dei mariti di Canela che incoraggiano le loro mogli a fare sesso con l’intera tribù ed è l’anziana donna di Mangaia che insegna ai ragazzini tredicenni quali sono le pratiche sessuali indispensabili per ottenere orgasmi soddisfacenti. Quale sarebbe quindi la “nostra” tradizione? E soprattutto, a quale periodo bisogna fare riferimento? Forse per tradizione sessuale si intende la copulazione della coppietta monogama e dal sapore cattolico che, tra un fidanzamento di lunga durata e i litigi del fine settimana, decide di dare una svolta al proprio oblio con il matrimonio. Rituale, quello del matrimonio, che prevede l’immancabile abito bianco (dal classico al naïf) per sfociare, se tutto va bene, in tradimenti annuali e divorzi a tempo indefinito (durano quanto l’interminabile fidanzamento). Oppure ci potremmo riferire alla tradizione progressista, fortunatamente minoritaria, fatta di sesso scandito da regole calviniste: correttamente promiscuo, dialogato in modo minuzioso, mai tossico, lineare, contrattualizzato, didascalico e apprezzato dagli intellettuali di Instagram.
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