Tutti ricordiamo l’epopea del “Supercafone” e del suo eroe, Piotta. Da quell’exploit supercommerciale, forte di un background hip hop di tutto rispetto, il nostro ha macinato molta strada seguendo sentieri non sempre a fuoco, ma costantemente alla ricerca della sua via maestra. E pare che stavolta l’abbia trovata: il nuovo disco ’Na notte infame, accompagnato dal libro Corso Trieste pubblicato da La nave di Teseo, rappresenta un punto di svolta nella carriera del rapper. Un lavoro ispirato dalla scomparsa prematura del fratello Fabio, che è coautore dei testi e il cui faro sembra portare Piotta in una zona intimista, lirica, dal sapore cantautorale. La musica di Tommaso (questo il vero nome der Piotta), coadiuvato dal pianista Francesco Santalucia, può piacere o non piacere, ma in questo caso è indubbio che ci troviamo di fronte a un lavoro genuino, vero. Un lavoro che, infatti, è stato recentemente al centro di una polemica contro il premio Tenco, reo di averlo escluso dai finalisti per il migliore album in dialetto nonostante i voti della critica: questo a sottolineare che il linguaggio del Piotta, “universale” ma impregnato di romanità, sia ancora difficile da incasellare, anche se finalmente, pienamente maturo. La maledizione del “Supercafone”? Per capirlo ci facciamo una chiacchierata a Torpignattara in Roma, quartiere dove il fratello Fabio abitava e dove io sono residente. Tommaso è spesso qui in zona a curare l’eredità spirituale del fratello.
Partiamo dalle origini: quando è che inizi a interessarti alla musica?
Comincio ad amare la musica in più momenti. Da piccolissimo a Villa Ada, quando la domenica facevamo i pic-nic e magari c’erano “i resti” della nottata prima – quelle notti dell’Estate romana di Nicolini al laghetto –, e quindi con gli altri amichetti di famiglia e coi genitori ci intrufolavamo a mo’ di avventura nel backstage, cercando di capire quella magia. Poi banalmente al mare a Tortoreto Lido, dove sono sempre andato e vado ancora per i vari concerti estivi. Per dirti, anche Zucchero, prima che facesse il botto a Sanremo, ha suonato lì… Ero affascinato da questo momento collettivo dove ci sono un cantante e una band su un palco e tutte le persone sotto, però si sta tutti assieme. Poi ho cominciato a cercare il mio genere musicale rispetto ai cantautori che ascoltava nostro padre o al punk rock – soprattutto rock – che ascoltava mio fratello: Ramones, Clash e poi gli AC/DC, ancora più duri, e tanto Frank Zappa. Cercavo a ogni modo un mondo sonoro mio alternativo a questi due poli. E l’ho trovato grazie a mia cugina, che era un po’ più grande di me ma più piccola di Fabio, e che per metà era inglese, quindi, andando spesso a Londra, tornava con le novità. Lei era il mio Google. Un’estate, sempre a Tortoreto, mi fa: “Cugi, senti ’sta canzone qua, è una cosa che a Londra ascoltano tutti, stanno tutti in fissa”. E mi mette i Run DMC e io dico “Ma che è? Bellissimo…”. Vabbè mo’ siamo un po’ tutti abituati al rap…
Mah, oddio, io ho riascoltato recentemente il loro primo disco ed è ancora una roba spaziale, alla fine, volendo andare al succo, è solo voce e drum machine, e basta.
Comunque, una volta tornato a Roma cercai di capire chi poteva avere ’sto rap. Complice mia madre che lavorava all’Alitalia, mia cugina per metà inglese, e un po’ di amici che ascoltavano musica e la “cercavano” con me, qualcosina ho racimolato, ma poca roba. Mi piaceva anche l’estetica, ’ste tute dell’Adidas, le scarpe… quindi portavo mi’ madre a compra’ ’ste scarpe… “Ti prendo le Adidas?”. “No le Run DMC Adidas!”. “Ma costano tre volte tanto!”. [ride] Quindi posso capire i pischelli di oggi…
Insomma, così come anche gli altri ragazzi della mia età, presi come riferimento l’unico italiano che raccontava un po’ questo mondo a livello visivo, a livello radiofonico, come dj, e in parte anche a livello musicale con i suoi dischi: cioè Jovanotti.
Per chi legge, parliamo del primissimo Jovanotti, quello che ancora cantava in inglese. Tu tra l’altro hai scritto un libro su Jovanotti.
Sì, Pioggia che cade, vita che scorre, dove racconto le nostre origini simili per ambientazione urbana. Perché Lorenzo – anche se tutti lo percepiscono come artista legato a Milano – in realtà è di Roma, e a Roma già miete i suoi primi successi: uno su tutti Walking, che era un pezzone.
Quindi, alla fine, tu sei amico di Jovanotti?
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Be’, sì, lo conosco. Ho anche suonato con lui in un suo video. Mi ha fatto piacere conoscerlo e confrontarmi con lui: siamo amici e colleghi. Chiaramente non ho un rapporto come posso averlo con le persone con cui ho cominciato a fare il dj, perché con loro sono proprio cresciuto insieme, quindi abbiamo un rapporto più intimo.
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