Le storie che raccontano Fabio e Damiano D’Innocenzo spesso sembrano generate dai luoghi in cui si svolgono. Come la casa squallida, ai margini del nulla, del poliziotto Enzo Vitello (Filippo Timi), protagonista di Dostoevskij. Come le assurde villette a schiera postmoderne e già fatiscenti (o mai finite) in cui abita sua figlia Ambra (Carlotta Gamba) con le sue amiche. Come la villa pretenziosa dalla scala architettonicamente assurda in cui abitava il protagonista di America Latina. Chi sta lì non può avere un rapporto sano con la realtà.
Marco Ferreri sceglieva le location con lo stesso acume; ma da parte sua c’era sempre un gesto artistico programmatico, a metà tra la presa di possesso tipica della pop art e la decostruzione socio-antropologica. I Fratelli D’Innocenzo non mirano a tanto, anche perché non si pongono mai al di fuori. Al contrario, sembra che abbiano vissuto dentro ogni ambiente che mostrano. Ogni appartamento è amorosamente definito nei dettagli: adesivi scoloriti sui vetri, piccole cose di pessimo gusto che rimandano a un conformismo piccolo-borghese di cui si è perso il senso; polvere, macerie, rifiuti ovunque; scarti e rimasugli di un passato che, con termine fin troppo facile, si sarebbe tentati di definire “provinciale”, se non fosse che nella loro Italia, che è anche la nostra, tutto è diventato provincia, periferia, sobborgo, quello che volete. È anche per questa precisione iconografica che i film dei Fratelli D’Innocenzo sono così contemporanei. Ma non sono reportage che inseguono il feticcio della realtà, anche se parlano di cose di cui di rado si parla nei film italiani (in Dostoevskij, per esempio: contratti di affitto e compravendita di case). Non sono documenti effimeri: perché l’osservazione di questo mondo vecchio e nuovo, letteralmente mai morto, è fatta con una lucidità estrema, dolorosa, che non fa sconti, e intanto cerca un senso (assente), una morale (impossibile).
È il contrario di ciò che avviene in tanti film italiani sulla marginalità: quasi sempre prevedibili, anche quando vorrebbero essere liberi e ribelli
In Dostoevskij, come nei film precedenti, le vicende prendono sempre pieghe orribili e sconfortanti. Ma questo avviene con un fatalismo oggettivo che esclude il compiacimento nichilista, anche se molti personaggi lo sono. C’è sempre il rimpianto che le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa, ma non è stato così. È il contrario di ciò che avviene in tanti film italiani sulla marginalità: quasi sempre prevedibili, anche quando vorrebbero essere liberi e ribelli; quasi sempre estetizzanti, anche quando fingono di inchinarsi a un neorealismo mai conosciuto a fondo (gli esempi sarebbero tanti, ma faccio solo il più eclatante e ingombrante: Dogman di Garrone). Film sempre aperti a un risarcimento poetico, con la catarsi comunque a portata di mano, retaggio di un pasolinismo mal digerito. Il cinema dei Fratelli D’Innocenzo, invece, prescinde felicemente da Pasolini, né ha complessi e angosce dell’influenza, per usare la sempre attuale espressione di Harold Bloom; e comunque non c’è mai luce in fondo al tunnel. Il viaggio è spesso scomodo, ma questo non vuol dire che ci sia freddezza, cinismo, sguardo da entomologo che si pretende oggettivo. In Dostoevskij attori e spettatori sono lì in mezzo, a sporcarsi, e l’impatto emotivo è spesso insostenibile, privo com’è di mediazioni intellettualizzate.

Se i film precedenti costruivano un affresco coerente spostando la visuale su diversi ambienti sociali e habitat, Dostoevskij fa uno scarto e si colloca in una specie terra di nessuno, quella della serie TV noir: sei puntate in televisione, due al cinema, che declinano un genere ben noto – il poliziotto alla ricerca di un serial killer che viene contagiato dal male. Come affrontano il genere i due autori? Da una parte ne rispettano le regole nelle scansioni delle puntate, negli archi narrativi; elargiscono più terrore del dovuto e non si sottraggono al climax, arrivando con casualità tortuosa a dare un volto al serial killer grafomane e filosofo. Dall’altra è evidente che la storia è al servizio dei personaggi e delle immagini (e non c’è spazio, qui, per dire quanto sono lavorate, audaci, contro le regole), e non viceversa. La storia e il genere servono a far emergere le malattie morali e i nodi irrisolti dei personaggi. A volte questo succede con una pulizia di messa in scena e una gestione della suspense da manuale di sceneggiatura: come nella scena apparentemente esorbitante del poliziotto Antonio Bonomolo (Federico Vanni) che va di notte in un autogrill e si mette a parlare col barista (Giulio Pranno). Non sappiamo a questo punto se siamo in una commedia o in un thriller, né abbiamo indizi su quale sarà la mossa successiva di questo personaggio ormai borderline; si avverte il disagio, forse la paura del barista, finché tutto si scioglie nella farsa tragicomica dei messaggi puerili e minacciosi che il poliziotto spedisce alla moglie (“Voglio il divorzio stronza”) e che lei smonta con l’emoticon della faccina che ride con le lacrime, perché le parole giustamente non servono, salvo scrivergli poi di passare a prendere i biscotti senza lattosio per le figlie. Non è successo niente ed è successo tutto. E si ride anche, in Dostoevskij, anche se nessuno lo scrive.
Queste cose non si vedono in televisione e neanche al cinema: altro che Stanislavskij. Si rimane basiti
Ma il metodo può anche essere opposto: come negli oltre dieci minuti della sequenza in cui padre e figlia si affrontano, lui le spiega perché l’ha lasciata, e la reazione è un denudamento psicologico, un corpo a corpo in cui alla fine lui si fa vomitare letteralmente in faccia, perché non si merita altro. E qui la messa in scena è tutta fisica, attaccata ai corpi, piano-sequenza e macchina da presa a mano (una vera macchina da presa, con la pellicola in super 16 millimetri), con una brutalità, una paura e un disagio che è molto più che horror e al tempo stesso è hard core. Queste cose non si vedono in televisione e neanche al cinema: altro che Stanislavskij. Si rimane basiti.

Sarà anche per questo che chi scrive di Dostoevskij, anche se l’ha apprezzato, parla di rado delle cose più devastanti o urticanti e, in una classica strategia di riportare l’ignoto al noto, accumula riferimenti, paragoni, etichette. E i nomi che saltano fuori sono quasi comici nella loro eterogeneità. Ma vale la pena di liquidare il discorso delle presunte citazioni. Per esempio, uno vede la scena in cui Vitello affronta il serial killer (non faccio spoiler) e pensa a Lucio Fulci. Un altro vede la scena in cui, senza alcun preavviso, un uomo cade da una finestra sul tettuccio di un’automobile, e pensa a Cure di Kiyoshi Kurosawa. O a centomila altre cose. Ma i D’Innocenzo non citano. Sono autori che vedono e leggono tanto, ma metabolizzano quello che gli serve. La prima volta che vidi La terra dell’abbastanza, una sequenza in campo lungo mi ricordò Sonatine di Kitano. Poi rividi Jackie Browndi Tarantino e pensai: to’, l’avranno presa da lì? Ma saperlo non serve a nulla, non aggiunge o toglie nulla. Anche in questo paragonabili a Ferreri, i due registi si creano il proprio linguaggio da soli; e azzardare riferimenti significa perdere di vista l’essenziale.
I Fratelli D’Innocenzo non credono nella redenzione
La dimensione delle quattro ore e mezza consente di perdersi in tanti mondi di rado confortevoli (ma anche teneri: la coppietta incredula di avere trovato casa per 10.000 euri), ciascuno dei quali possiede comunque una perentorietà muta e inspiegabile. Come l’endoscopia cui si sottopone il protagonista, e di cui pochi recensori, mi pare, riferiscono. Perché questo momento all’interno del film? È l’allegoria di uno sguardo che mostra cose invisibili, che esplora letteralmente la carne? È body art, come succedeva forse in qualche spettacolo della Societas Raffaello Sanzio? Forse è una parentesi di ripiegamento creaturale, una paradossale pietas, riflessione sulla miseria umana, sublime del basso-materiale corporeo. (Lo stesso succede verso la fine, quando la faccia massacrata del poliziotto Fabio Bonocore – Gabriel Montesi – viene ricucita e rabberciata. Non è la sua redenzione, perché i D’Innocenzo non credono nella redenzione. È il suo ritorno alla condizione umana.) Tre minuti di stasi (di videoarte, forse) estorti a un mondo che va in fretta, a un film che deve comunque andare da qualche parte. E ci va. Del resto cos’è un film? “Qualcosa che va avanti senza sosta e senza sapere perché”. Facendo più o meno rumore, per continuare a usare le parole di chi è diventato Dostoevskij.