Sono quasi le due, e non ho ancora preso sonno. Il sonno mi era venuto, a dire il vero, un paio di ore prima, ma poi se n’è andato, mentre ero sul divano, il lume rosso acceso, la semioscurità che cancella gli scaffali della libreria, le troppe cose che dovrò fare. Mi sono messo a leggere i giornali sullo smartphone e a scrollare, poi a leggere Garboli su Morante – mi dà sempre un po’ fastidio quel modo di mettersi in primo piano o di far interferire continuamente la biografia (altrui, propria) con i testi che legge; ma alla fine dice un sacco di cose intelligenti e interessanti, e, accidenti, come sa scrivere. Ora sono a letto – almeno questa camera non è cinta da libri, ce ne sono solo due o tre sul pavimento, accanto al comodino che non ha spazio per ospitarli. E a un certo punto, non so come, mi manca l’aria. Sollevo la testa, il busto: devo inspirare profondamente, far espandere la cassa toracica e riempirmi di aria, ma non mi basta, o perché il volume non era abbastanza ampio, o perché, per qualche motivo, l’aria non è entrata sino in fondo nei polmoni, come se fossero una spugna che non assorbe tutta l’acqua che dovrebbe, o perché il tempo di autosufficienza è troppo breve, per quanto profondamente abbia inspirato debbo rifarlo subito dopo, di nuovo, e di nuovo, e di nuovo ancora.
Stai calmo. Un anno fa, in Bolivia, mi è successa una cosa simile, ma con più violenza, ero su un’isola del lago Titicaca (dall’altro capo c’è un medico, hanno le bombole di ossigeno: ma dall’altro capo), ero soprattutto a oltre 4000 metri di altezza: è appunto quello che si chiama mal de altura o de montaña, si può anche morire, ma no, mi dicevo: stai calmo, e vedrai che non muori. Infatti non sono morto – allora non morirò neanche adesso che sono in casa mia, nella mia città, posso arrivare a piedi al pronto soccorso in un quarto d’ora, perché se voglio mi alzo e ci vado, anzi ora mi alzo proprio e inspiro col naso, espiro con la bocca, mi metto davanti alla finestra, chiudo gli occhi, e via. Mi viene l’idea prevedibilmente dissennata di cercare su Google con lo smartphone «difficoltà a respirare»: le cause possibili vanno dall’infezione al trauma, dall’allergia all’asma, dall’infarto al tumore, e sono interminabili, occupano lo spazio della mia mente come una folla di ultras con la faccia bendata, urlanti, feroci, che si disperdono nelle strade per spaccare le vetrine e mettere al rogo le macchine, sotto lo sguardo atterrito di chi sta dietro le imposte socchiuse, alle finestre dei palazzi. Smettila, sii razionale. «Difficoltà a respirare: cosa fare?». Appunto respirare come sto facendo io, o respirare in un sacchetto di carta, non di plastica (ma io non ho sacchetti di carta, non compro mai il pane, la frutta e la verdura le prendo al supermercato, dove le imbusto in quel polietilene bianco e sottile, che sarà sì ecologico e riciclabile, ma ammesso che non sia plastica, di certo non è carta). Almeno, per istinto, ho fatto una cosa giusta; o una cosa inutile, perché ci vorrebbe uno di quei maledetti sacchetti di carta, e perché la stessa stranezza dell’atto è una garanzia di efficacia – se alla salvezza potevo arrivare da me, allora non è una vera salvezza, quella venendo per definizione da fuori, dall’alto.
Inspira, espira. Stai calmo. Non hai dolori al petto, né tosse, né fastidi, non senti formicolii, non ti gira la testa, sei lucido, sei perfettamente lucido (è vero che sei lucido?); e anche il cuore sembra batta regolarmente, forse un po’ accelerato?, ma si capisce, ti sei agitato, chi non si agiterebbe?, quindi calmati: inspira, espira. Poi, questo tentativo di imporre al più irriflesso, naturale, impensato degli atti un ritmo artificioso e lento, un ordine volontario e calcolato, si scioglie in uno sbadiglio. Torna a letto, magari tieni la testa un po’ sollevata sul cuscino, tira su le coperte che poi prendi freddo e ti viene mal di gola mal di mal… Mi sono assopito, mi sono risvegliato: e poiché questo non è un racconto d’invenzione, e io che scrivo e parlo sono proprio io, no, non sono morto neppure questa volta. Però, come una di quelle boe che la spinta di Archimede solleva dal pelo dell’acqua e a tratti fa emergere, poi, per il moto delle onde, scompare e riappare in modo imprevedibile, ma sta sempre lì, e si rifiuta di andare a fondo, così mi ha visitato se non la morte, il suo pensiero; mi ha visitato nella sua forma più evidente, quella del mio corpo, o per dir meglio del corpo come qualcosa cui cerco di imporre un ordine (e per paradosso, proprio in uno di quegli atti involontari che non dobbiamo controllare, perché cosa sarebbe mai la vita se dovessimo imporci di respirare o di far battere il cuore?), del corpo che riesco a ricondurre al suo ordine, e che quindi mi parla proprio di questo: mi dice che il corpo ha leggi sue, posso cercare di intervenire e tamponare qualche occasionale disastro, ma sono io che mi devo adattare a lui, è lui che detta la sua legge, per me incomprensibile.
Porto un apparecchio per allineare i denti storti, vado tre volte a settimana in palestra, la sera faccio la mia skincare per appianare almeno un minimo le rughe. Ma se smettessi di portare l’apparecchio, i denti tornerebbero alle loro storture di una volta, prima o poi non sarò più in grado di fare panca e addominali, le rughe, dopo avermi illuso e preso in giro, se la rideranno di acido ialuronico e retinolo. Il giro economico intorno ai nostri corpi, questo immenso indotto della fabbrica dei corpi, che va dalla cosmetica alla chirurgia estetica, dalla moda agli sport, dall’alimentazione alla manualistica prescrittiva e al turismo termale, e che pervade alla fine tutta intera la vita di quella parte di umanità che si è sottratta al bisogno (ma a ben pensarci, neppure solo quella), è un grande teatro di inganni e bugie a cui abbiamo bisogno di credere, nel tentativo ridicolo e disperato di appropriarci di quello che appunto non è nostro, ci sfuggirà di mano, ci porterà per consunzione o nello sfacelo all’annullamento: il nostro corpo. Io sono il mio corpo, e il mio corpo non è me. Non occorre pensare che ben poco, o forse nulla più, resta delle cellule che avevo quando sono nato, che più passa il tempo più mi perdo, e che se qualcuno, per incanto o malignità, sostituisse le foto di me bambino con quelle di un altro bambino non troppo dissimile da me, non farebbe nessuna differenza, essendo il mio corpo tanto poco quello del me stesso di allora quanto quello di un altro. In ogni istante, il nostro corpo ci è estraneo, e quel che è peggio, intreccia una complicata relazione di connivenza e ostilità con il flusso dei nostri pensieri, delle nostre emozioni, dei nostri sentimenti, se ne lascia coinvolgere e mutare o li indirizza dove pare a lui; di modo che, quando parliamo di corpo, parliamo in realtà della sostanza organica della nostra mente, che può vivere solo impastata a lui, e al tempo stesso si cerca delle vie di fuga dove, sotto il nome di anima spirito psiche atman o come altro secoli e dottrine l’hanno battezzata, si illude di sfuggirgli, per svaporare nell’inconsistenza del fantasma. Che poi, gli etimi di tutte quelle diverse voci indicando proprio il soffio o il respiro, non è escluso che il corpo sia l’altro nome di qualcosa di inafferrabile, non solamente materiale al pari delle onde-particelle di luce, e che ci serva per nasconderci una sostanza volatile e persistente quanto certi odori che impregnano le stanze, i vestiti, i capelli.
Non è vero, come vuole una retorica di uso comune, che il nostro corpo parli, tanto meno che ci parli: mugugna, geme, sbraita, urla, urta, ma non produce nulla che sia un linguaggio articolato, nulla che pietose metafore da manuale di medicina improvvisato possano tradurre e ricondurre alla ragione. Simile a un animale selvatico che abbiamo cercato di addomesticare e che, per qualche tempo, risponde ai comandi e imita a modo suo comportamenti che crediamo umani, ma che a un certo punto, senza che ce lo aspettassimo, si ribella, riafferma i diritti della propria natura e con uno slancio secco e risoluto emette un verso atroce, salta su, ci assale per azzannarci, il nostro corpo si lascia blandire finché gli va o gli conviene, ma poi, che agisca copertamente o che, con ira, corra tumultuoso verso il precipizio, avrà la meglio su di noi, ci schiaccerà trionfante di aver raggiunto il suo fine di sempre, che è la nostra estinzione.
Non c’è inimicizia più cieca di quella del corpo contro noi stessi – contro sé stesso. Il ritmo del respiro mi si spezza di nuovo, ma è anche vero che quel ritmo io lo ignoro e, se mi metto a misurarlo, lo deformo, mi sfugge ancora di più nel suo metronomo automatico e imprevedibile. Inspiro, espiro. Devo stare calmo. Ogni malessere è un annuncio, ogni guarigione una procrastinazione. Non sono io che sto soffocando: è il mio corpo che cerca di strozzarmi. È inutile cercare di opporre resistenza o distrarlo, certi animali braccati simulano la morte ma qui si tratta semmai di fingersi vivi, fare il vago e distrarre sé stessi dal peso della sua oppressione. Aspetto che, per un capriccio, gli passi la voglia di farmi fuori.