In un pezzo di alcuni mesi fa, precedente alla corsa di Romanzo senza umani per il Premio Strega 2024, erano abbastanza chiare alcune delle mie idee su Paolo Di Paolo come scrittore e intellettuale. Sottotraccia persisteva la convinzione che, a dispetto di tutto, è una persona con cui vale la pena di dialogare (e che ringrazio per aver accettato l’invito). Una figura centrale per capire alcuni nodi della cultura italiana degli ultimi vent’anni: come rappresenta se stessa; come essa si rapporta al Novecento, il secolo ormai estinto da cui proviene; che cosa significa il lavoro culturale per chi non ha rendite di posizione stabili; da chi è fatta la società letteraria contemporanea.

LM: È difficile scegliere una delle tue identità per presentarti: responsabile editoriale per collane e case editrici fra cui Treccani, ma anche curatore di autori e autrici del Novecento italiano – hai investito molto nella cura di scritti di Montanelli, Tabucchi, Antonio Debenedetti, hai firmato il Meridiano di Dacia Marini, per dirne alcuni; collaboratore di lungo corso di quotidiani, trasmissioni radiofoniche e molte delle principali riviste italiane; romanziere, fin dal 2008 con Raccontami la notte in cui sono nato, spesso premiato o solo finalista in premi letterari importanti; saggista, con marcata attenzione al pubblico dei più giovani, di cui è esempio anche l’appena uscito Rimembri ancora (Il Mulino, 2024), questa guida commentata ad alcune delle poesie più famose (nel panorama scolastico) della nostra lingua … Pensi che in questo elenco, parzialissimo, ci sia un’identità che senti come più tua? Quali sono il tuo “primo” e il tuo “secondo” mestiere?

PDP: Io farei ruotare tutto intorno alla parola «scrivere», anche quando la uso con apparente understatement nel mio sito personale. Questa locuzione tardo-novecentesca di «uno che scrive» non viene da esitazione, dall’imbarazzo nel definirmi scrittore: è semplicemente la certificazione di un gesto che ripeto. La ragione di questo declinare la scrittura in varie direzioni sarebbe autoevidente se ci trovassimo ancora nei confini del Novecento. Senza voler fare nessun accostamento incongruo, Calvino faceva la stessa cosa (l’editor, i romanzi, i giornali, perfino le canzoni …). Questa dimensione del poligrafo, e anche se vuoi della persona implicata nel mondo editoriale, è tipicamente novecentesca, non certo una novità. Semmai oggi sembra eccentrica perché, viceversa, lo scrittore «puro» che oggi ha numerosi esemplari pretende una specie di status superiore, una serafica imperturbabilità: appare coi suoi romanzi ogni due-tre anni e crede che questo gli basti. A me interessano gli intellettuali (parola oggi percepita quasi come un’offesa), perché mi hanno nutrito da lettore. Io sono uno scrittore-letterato, me l’hai riconosciuto perfino tu. E quando incontro uno scrittore che non è intellettuale, che ha letto poco e male, disordinatamente, ne resto disorientato. Quando per esempio sento miei coetanei (i nati negli anni Ottanta, che pubblicano con grandi editori) dire che Proust e Flaubert sono sopravvalutati – non per volontà di provocazione, perché quella richiederebbe un’intelligenza che in molti casi manca, ma per pigrizia mentale e larvato populismo – a me sale la bile nera. 

Poi, detto in breve, questo percepirmi scrittore-intellettuale nasce anche da una questione alimentare. Io sto in una fascia tutto sommato privilegiata degli scrittori italiani, ma non vivo esclusivamente di diritti d’autore. Quindi la curatela editoriale, la scuola di scrittura, il giornale, la radio, sono tutti pezzetti di attività che mi consentono di non fare un mestiere totalmente alternativo. Ma poniamo che coi miei libri riuscissi a viverci,

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