A volte capita – durante una discussione fra nerd – che qualcuno mi dica: pensa a Star Trek, quando… Esortazione assolutamente inutile: una parte del mio cervello è impegnata continuamente a pensare a Star Trek. Credo sia una fattispecie della teledipendenza tipica di noi nati all’inizio degli anni Settanta. Quando il telefilm dispiegava la sua potenza di struttura chiusa, autoconclusiva. Nessun hype per la prossima puntata o per il finale di stagione. A ogni episodio di Star Trek: The Original Series, il mondo ricominciava daccapo. Era un mondo narrativo sereno e rassicurante, in cui per esempio la sopravvivenza dei tuoi personaggi preferiti era garantita (solo South Park, con le continue rinascite di Kenny ha saputo spingersi oltre). Non ti artigliava alla gola, quel tipo di narrazione, non ti schiavizzava. Poi con Star Trek: The Next Generation sono apparsi i primi cliffhanger a fine stagione, la morte di un membro rilevante dell’equipaggio (Tasha Yar, che però ritorna fra stratagemmi come la clonazione o l’anomalia temporale) e una qualche linea generale di macro-racconto (siamo già nella metà degli anni Novanta). Con Deep Space Nine arriva la continuità (le guerre col Dominio) e con Voyager ogni aspetto precedente si perfeziona. In ognuna di queste quattro serie il personaggio del capitano (Kirk, Picard, Sisko, Janeway) è interpretato da un attore shakespeariano (William Shatner, Patrick Stewart, Avery Brooks, Kate Mulgrew).


Chiunque tenga a mente le scarne scenografie della serie classica – un masso visibilmente di cartapesta, un corridoio vuoto, una consolle – dovrà rendersi conto che quei contenitori appena desolati erano, per noi ragazzini aggiogati allo schermo nel 1979, la variante trek della scena elisabettiana, molto prima di leggere Shakespeare. Tanti gli episodi che lo citano spudoratamente nel titolo: «All our yesterdays» (Macbeth); «By any other name» (Romeo e Giuletta); «The conscience of the king» (Amleto); «Dagger of the mind» (ancora Macbeth). Shakespeare a nostra insaputa.


Una fissa quasi delittuosa sulle conseguenze degli spassi intertestuali mi riporta frequentemente alla scena di Star Trek VI: Rotta verso l’ignoto dove l’impeccabile Spock coglie al volo una citazione del Cancelliere Gorkon. Si parla di due fazioni in guerra (la Federazione dei Pianeti Uniti e l’Impero Klingon) e Gorkon ha appena alzato un brindisi al futuro, «the undiscovered country» (che poi è anche il titolo originale di questo sesto capitolo). 


Spock subito, col noto cipiglio vulcaniano: «Hamlet, Act three, Scene one». 


Nell’atmosfera distesa ma non troppo della cena diplomatica sembra che voglia sottolineare la frase di Gorkon come omaggio alla cultura terrestre (ma che sia una minaccia? nell’Amleto la «undiscovered country» è la morte). Gorkon replica sornione: «You have not experienced Shakespeare until you have read him in the original Klingon».


Il capitano Kirk ha un calice alle labbra e squadra il Cancelliere, si vede che sta decidendo se sbudellarlo prima o dopo aver bevuto. Perché badate, Gorkon non dice: «nella sua versione Klingon», dice «nell’originale». Oggi lo accuserebbero di appropriazione culturale. Non finisce qui, tra i convitati c’è il Generale Chang (un truce Cristopher Plummer, altro shakespeariano di lunghissimo corso) che si mette a declamare allegramente: «TaH pagh TaHbe’!», e così scopriamo pure come si dice in Klingon essere o non essere.


La rivendicazione del Bardo alla propria identità culturale non è un fatto nuovo. Quand’ero ragazzo circolava l’idea di uno Shakespeare nato in Siria o in Iraq – Sheik Zbair o qualcosa del genere. Sulla sponda italiana c’era l’ipotesi «Guglielmo Crollalanza», suggerita nientemeno che da un medium. I nazisti, Goebbels in testa, hanno provato a intitolarselo senza troppi complimenti (The Nazi Appropriation of Shakespeare: Cultural Politics in the Third Reich. By Rodney Symington, Lewiston, The Edward Mellen Press, 2005). 


In Star Trek: The Original Series i Klingon, società altamente militarizzata, rappresentano – in piena Guerra Fredda, la serie parte nel 1966 – i sovietici (e così i Romulani i cinesi, mentre ai nazisti è dedicata una puntata particolarmente esplicita, dove uno storico sperduto su un pianeta non troppo avanzato finisce per modificarne lo sviluppo e instaurare un nuovo Reich), ma il concetto rimane invariato. Non puoi dire di apprezzare Shakespeare se non l’hai letto nell’originale Klingon.

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Una posizione del genere, più raffinata e meditabonda, la potete scovare in Nabokov, quando Pnin, protagonista dell’omonimo romanzo, si ritrova fulminato da una memoria giovanile: «Ma certo! La morte di Ofelia! Nella buona vecchia traduzione russa di Andrej Kronenberg, 1844 […] E anche qui, come nel brano di Kostromskoj, vi è, come tutti ricordiamo, un salice, e vi sono delle ghirlande. Ma dove procedere a un opportuno controllo?». Il libro che Pnin desidera non si trova: «non figurava nella biblioteca dell’università di Waindell, e tutte le volte che ti riducevi a cercare qualcosa nel testo inglese, non trovavi mai questo o quell’altro verso bellissimo, nobile, sonoro che ti era rimasto impresso per tutta la vita nella versione di Kronenberg nella splendida edizione Vengerov. Che tristezza!».


Leggendo di miti russi nel volume di Kostromskoj, di ghirlande, salici e ragazze che nuotano e cantano, a Pnin è venuta in mente una misteriosa associazione. Dapprima non riesce a metterla a fuoco. Poi riponendo in tasca una scheda di appunti, così, dal nulla riemergono i versi in russo: plyla i pela, pela i plyla, Ofelia che canta e galleggia. Il testo di Kronenberg, a sentire il buon Pnin, surclassa in bellezza, nobiltà e sonorità quello inglese. È un Nabokov-Gorkon. Non puoi dire di apprezzare Shakespeare se non l’hai letto nell’edizione Vengerov.


Questa parte della storia dovrebbe riguardare come recepiamo Shakespeare, e soprattutto grazie a cosa. Potremmo chiamarla La versione di Kronenberg.


O la versione Klingon, che peraltro esiste sul serio. Come è noto, il Klingon è una lingua artificiale (come l’Elfico), vanta 79 parlanti, ha perfino un suo codice iso-639. Ora, un gruppo di individui scelleratamente nabokoviani ha dato avvio alla “restaurazione klingon di Shakespeare”, prendendo alla lettera la facezia (?) del Cancelliere Gorkon. Il risultato è una serie di sonetti tradotti, più Sogno di una notte di mezza estateMolto rumore per nulla e, naturalmente, Amleto. Quest’ultima, a vederla, non è propriamente una traduzione, ma un travestimento. Suppone che l’originale nasca nella cultura Klingon e che la versione inglese ne sia l’adattamento diciamo «moscio». Questo perché secondo gli autori, Nick Nicholas e Andrew Strader, i temi Klingon sarebbero predominanti in Shakespeare e il Bardo stesso una mera invenzione della Federazione dei Pianeti Uniti per fare propaganda contro l’Impero. 


The Tragedy of Khamlet, Son of the Emperor of Qo’noS, il titolo sonante del presunto palinsesto. L’intera operazione è una gran genialata. Però avrei mille obiezioni su Amleto genuina incarnazione dello spirito Klingon. Tutti i suoi dubbi, gli espedienti, quel macchinare nell’ombra, evitare il conflitto aperto, aspettare il momento giusto. Amleto – se vogliamo darne una lettura trekker – è il perfetto romulano. Il punto è un altro.


Si può dire che la mia generazione è stata educata a Shakespeare da Star Trek. Come Pnin sull’edizione Vengerov. Crescendo, Star Trek ci ha accompagnati in una rilettura meno mimetica e più consapevole del Bardo – in diverse puntate di The Next Generation il capitano Picard non solo osserva una quantità di rappresentazioni shakespeariane (La tempesta, su tutte), ma produce critica a margine, ermeneutica anche sofisticata, nota psicologica – il bello è che quasi sempre i suoi ragionamenti sono rivolti a Data, l’androide che coltiva il sogno impossibile di diventare un uomo (Shakespeare & Pinocchio, alé). Così The Original Series e The Next Generation devono apparirci come il recto e il verso di una stessa pagina di educazione all’umanità, via Shakespeare: testo & commento. Non una pedagogia: una visione dell’umano. Che dopotutto corrisponde al sogno del suo creatore, Gene Roddenberry. Poi, per carità, c’era chi liquidava ferocemente la nostra passione per Star Trek – «‘ste cagate spaziali». Erano i boomer, quelli veri