Qualche tempo fa mi è capitato di occuparmi di un filosofo celebre negli anni dell’entre-deux-guerres ma oggi ricordato da pochi, Adriano Tilgher, e colleghi storici mi hanno suggerito di rivolgermi, per consigli (io mi occupo di letteratura), a Roberto Pertici, che «su queste figure minori sa tutto». Tilgher, in realtà, non è per niente una figura minore, e mi pare che il suo Diario politico, che poi ho ripubblicato per le Edizioni della Normale, meriterebbe qualche lettore in più rispetto ai pochissimi che ha avuto; ma in effetti Pertici – che mi ha aiutato con grande generosità mentre procedevo a tentoni nella storia delle idee del primo Novecento – sa tutto, e non soltanto intorno ai minori, e non c’è una sua pagina, tra quelle che un po’ affrettatamente ho letto in questi ultimi anni, che non mi abbia insegnato cose che non sapevo e, ancora più rilevante, fatto riflettere su questioni che non mi ero posto, o non con la chiarezza con cui ha saputo porle, riformularle: e in questo sta poi il talento dello storico, non importa se della letteratura o delle idee o degli eventi, nella ridescrizione di problemi più e più volte troppo unilateralmente descritti. Il fatto è che la storia culturale si trova un po’ sacrificata nella gabbia dei raggruppamenti disciplinari, e chi vorrebbe occuparsene, all’università, viene scoraggiato dalla routine della pubblicazione: è un ibrido tra la storia e la filosofia, e l’ibridazione (alias interdisciplinarità: ma la parola è così usurata che non la si può più usare seriamente), oltre a poter essere letale per la carriera, richiede il doppio dello studio.

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