Una forma di racconto per immagini che, per un secolo, è stata tutto: spettacolo, educazione, propaganda, arte; che ha nutrito, manipolato, reso più liberi o più servi milioni di persone, e che oggi si trova sparpagliata tra sale, eventi, telefonini, superata nei suoi principi estetici da migliaia di racconti settimanali, brevi campionature, frammenti autoprodotti. Un’arte che era “la lingua scritta della realtà”, la cui magia veniva dal fatto che qualcosa fosse accaduto davanti ai suoi occhi, e che vaga in un’epoca in cui è possibile creare le immagini (e le storie) con l’intelligenza artificiale. Questa è, a voler semplificare e caricare i toni, la situazione del cinema oggi. Non stupisce che questo stato di minorità e di frustrazione, questo smarrimento, producano talvolta per reazione, nei registi che possono permetterselo, sogni sfrenati di grandezza.

È il caso di The Brutalist di Brady Corbet, premio per la miglior regia alla Mostra di Venezia. Il film racconta la vita di un immaginario architetto ebreo ungherese del Bauhaus che, dopo esser stato in campo di concentramento, arriva a Philadelphia dove fa una vita misera e un po’ bohémienne. Finché un multimiliardario decide di commissionargli un centro polivalente: è la grande occasione della sua vita, che diventa ben presto un’ossessione, mentre il rapporto col mecenate prende pieghe drammatiche.

Il film, annunciato come il capolavoro della Mostra, appartiene a una piccola genia di kolossal d’autore

Tre ore e venti minuti più quindici minuti d’intervallo con conto alla rovescia, pellicola 70mm (che quasi sempre sarà proiettata in digitale), tavolozza cromatica d’altri tempi, schermo VistaVision (un formato panoramico in disuso, molto usato negli anni ’50, il quale però, nella proiezione al Lido, dava il curioso effetto di essere a fuoco solo al centro dell’immagine). Il film, annunciato come il capolavoro della Mostra, appartiene a una piccola genia di kolossal d’autore, realizzati da registi che, a un certo punto della carriera, sembrano voler incarnare in essi una sfida, una nostalgia e quasi un’allegoria. L’esempio più recente e fortunato è Oppenheimer di Christopher Nolan (che da tempo, con Interstellar, Dunkirk, Tenet va in quella direzione); all’altro opposto, c’è stato il tonfo di Babylon di Damien Chazelle, evocazione elefantiaca di luccicanti turpitudini nella Hollywood tra muto e sonoro. Una cosa diversa parrebbe essere invece

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