UNO O DELLA FERMEZZA

Pochi mesi prima di morire 

Max Weber si trovò in difficoltà. Era il gennaio 1920, in una Monaco uscita appena dalla Repubblica dei consigli, dalla sua repressione sanguinosa. Weber si mise a parlare in pubblico del caso Arco. Chi era Arco? Un von, un nobile di estrema destra che aveva sparato a Kurt Eisner e l’aveva ucciso. Eisner era stato una figura apicale della Baviera rivoluzionaria, un carismatico. Arco venne fermato, processato. Condannato a morte il 16 gennaio. Un forte movimento d’opinione ne chiese la grazia. Il 18 gennaio la ottenne.

Pochi giorni dopo, davanti agli studenti che lo contestavano – altri, socialisti, lo sostenevano –, Weber ribadì che Eisner aveva fatto vergognare anche lui. Che aveva fatto vergognare tutta la Germania. Ma la grazia ad Arco non la si sarebbe dovuta concedere: «è una grave debolezza graziarlo e io, se fossi ministro, lo avrei fatto fucilare». Graziandolo lo Stato è debole, graziandolo lo Stato si smentisce. 

Era stato lui a pronunciare un anno prima, sempre a Monaco, una formula famosa: che lo Stato è il detentore di un uso. L’uso della violenza legittima. Chiunque usa la violenza – ma solo lo Stato lo fa in modo legittimo.

La distinzione di Weber – lo Stato da una parte, chiunque dall’altra – non è reale. Non solo perché non ci siamo abituati: quando accade non distinguiamo la violenza legittima dalla violenza che legittima non è.

Ma perché sulla legittimità lo Stato sa mentire.

La sociologia dello Stato, prima ancora della sua storia, spiega che chi usa la violenza a volte prende una pausa dalla legittimità. Che la violenza adora le svolte in cui la legittimità respira e c’è ma è come non ci fosse. Che chi subisce la violenza di solito sente il sostantivo e non l’aggettivo – legittima.

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