Uno dei racconti di Frank Kafka più brevi ed enigmatici è Il prossimo villaggio. Cito la traduzione di Ervino Pocar:
Mio nonno soleva dire: «La vita è straordinariamente corta. Ora, nel ricordo, mi si contrae a tal punto che, per esempio, non riesco quasi a comprendere come un giovane possa decidersi ad andare a cavallo sino al prossimo villaggio senza temere (prescindendo da una disgrazia) che perfino lo spazio di tempo, in cui si svolge felicemente e comunemente una vita, possa bastar anche lontanamente a una simile cavalcata».
Mi viene in mente ogni volta che vedo film come Racconto di due stagioni di Nuri Bilge Ceylan, 197 minuti che hanno avuto un passaggio nelle sale italiane dopo Cannes 2023, e che ora si può recuperare in tanti modi, come ho fatto io. Perché la domanda è: in che modo si può raccontare una storia, se il tempo di un film non basta nemmeno a seguire il tragitto di un personaggio da una città all’altra, o una sua cena? In effetti c’è chi ha girato film in cui la macchina da presa (ieri) o la videocamera (oggi) seguono passo passo il cammino di un personaggio da un villaggio all’altro, senza stacchi, per qualche decina di minuti – all’interno di film che durano sette o otto ore, come Sátántangó (1993) di Béla Tarr o un titolo a caso di Lav Diaz.
Sì, bello tutto ciò, la riflessione sul tempo, la fotografia, il disegno (cose di cui si parla nel film) – ma per dire cosa?
È un’estetica del cinema da festival, che nel nuovo millennio ha partorito anche definizioni e teorie da web, Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo. Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.Questo contenuto è visibile ai soli iscritti