Non mi risulta che nelle scorse settimane sia stato ricordato in forme visibili Franco Brioschi, scomparso il 15 febbraio del 2005 alla soglia dei sessant’anni. Brioschi era, come si dice, un teorico della letteratura. Ma i rappresentanti di questo campo d’indagine (non disciplina) andavano e vanno in tutt’altra direzione; infatti è contro di loro che si è sviluppata la sua opera. E dato che gli eredi dei suoi avversari sono vivi ed egemoni, mentre lui ha l’indubbio svantaggio di essere morto, anziché provare a confutarlo lo si rimuove, confermando così la sua diagnosi sulla scarsa disponibilità a un dibattito rigoroso da parte del nostro ceto (ex) umanistico: una diagnosi che, inserendosi in un discorso più ampio sulle istituzioni culturali, aiuta a capire perché la conoscenza dei suoi libri potrebbe servire anche a chi non coltiva interessi letterari.
Ma andiamo con ordine. Brioschi ha rivelato il suo genio sobrio all’interno di una cultura, in particolare milanese, storicamente incline alle analisi concrete della società e a una certa severità morale: studi su Piero Gobetti, laurea con Vittorio Spinazzola, collaborazioni con Franco Fortini, Vittorio Sereni e Giulio Bollati. Dopo i precoci esordi, nel riflusso politico e teorico degli anni Ottanta, ha però cercato sostegno soprattutto in un grande poeta e in un grande critico attuali proprio in quanto lontani dalle mischie di stagione: Giacomo Leopardi e Giacomo Debenedetti. È questo il Brioschi di La poesia senza nome (1980), un saggio su Leopardi che integra degnamente l’interpretazione laica di Sebastiano Timpanaro, e in cui l’arte dell’argomentare e l’arte del citare si combinano con rara finezza. Ed è, ancora, il Brioschi che insieme ai coetanei Costanzo Di Girolamo e Alfonso Berardinelli, polemisti dalla prosa altrettanto limpida e ironica, mostra come lo strenuo tecnicismo di strutturalisti e semiologi si fondi su un’idea sbagliata della “letterarietà”. Qui sta anzi il nodo centrale della sua ricerca, che oltrepassa le polemiche del decennio. Da La mappa dell’impero (1983) a Critica della ragion poetica (2002), questo intellettuale eccentrico continua infatti a usare le armi della teoria per portarla a una consequenziale autodissoluzione. Le armi in questione sono per lui strumenti che servono a inquadrare meglio i problemi, ma che poi vanno archiviati come la scala di Wittgenstein – anche se è una scala da tenere sempre accanto. Non a caso, dopo le sue impeccabili performance analitiche, Brioschi raccoglie spesso il succo del ragionamento tornando a una metafora di Debenedetti: e quella metafora, così calzante, somiglia allora a una tesi che attraverso il lavoro del concetto è divenuta sintesi. Quanto a Leopardi, inserisce l’empirismo dello Zibaldone in un filone di pensiero che va da David Hume a Nelson Goodman, cioè all’interno di una filosofia del linguaggio costruttivista e nominalista che gli serve di nuovo a smontare il mito novecentesco del Puro Testo, il quale presuppone viceversa, in modo più o meno consapevole, un’ontologia platonizzante, frutto di uno scientismo angusto affermatosi tra i letterati proprio mentre le scienze dure lo abbandonavano iniziando a considerare le teorie come paradigmi provvisori e convenzionali.
Brioschi insiste sul fatto che le opere letterarie, come diversamente i testi sacri e le leggi, prevedono un ri-uso rituale. Oggetti simbolici singolari, sono però utilizzati come emblematici da un’istituzione più laica e più mobile di quelle religiose
Basandosi su una definizione di Heinrich Lausberg, Brioschi insiste sul fatto che le opere letterarie, come diversamente i testi sacri e le leggi, prevedono un ri-uso rituale. Oggetti simbolici singolari, sono però utilizzati come emblematici da un’istituzione più laica e più mobile di quelle religiose, che permette ai membri della comunità di proiettare sul loro tessuto i propri fantasmi, evitando così la caduta nell’angoscia e lo sprofondamento nell’informità del Tutto o dell’Io. A distinguere, secondo il classico esempio, lo slogan elettorale eisenhoweriano «I like Ike» dall’ungarettiana «M’illumino / d’immenso», non è dunque una proprietà intrinseca del testo, come pretenderebbe la tradizione strutturalistico-semiotica. È, invece, un certo gioco istituzionalizzato del linguaggio, che può essere chiarito soltanto da una pragmatica in grado di riferirsi ai soggetti coinvolti. Avendo rimosso questo piano, appena è entrata in crisi, la tradizione strutturalistico-semiotica si è invece rovesciata nello speculare post-strutturalismo, che accetta ogni interpretazione senza limiti, e così le cancella tutte in una notte delle vacche nere. «Nulla produce irrazionalità come un cattivo razionalismo, sentenzia a proposito Brioschi, che sfotte un po’ anche Umberto Eco, il quale, per attenuare le vecchie posizioni senza rinnegarle, approda a formulazioni enfatiche ed opache («siamo forse, da qualche parte, la pulsione profonda che produce la semiosi») ben lontane dal suo leggendario abito di ragionatore.

Non tutto ciò che si fa con un testo, insomma, è inscritto nei suoi segni. Occorre una filosofia del linguaggio più comprensiva, o si ricade nell’heideggeriana Parola che Parla, e nelle petizioni di principio di chi finisce per trovare in quei segni ciò che vi ha già supposto a priori, magari travestendo una poetica modernista da spirito oggettivo. La verità, ribadisce Brioschi, è che per la loro stessa natura i simboli esigono di essere interpretati facendo riferimento al rapporto che intrattengono con altro. E nel caso di un testo letterario, questo altro può riguardare tanto una certa consuetudine stilistica quanto un certo aspetto della biografia dell’autore. È impossibile stabilire a priori quale dato sia più “intrinseco” e quale più “estrinseco”, nell’interpretazione di un testo che solo il suo alone istituzionale rende un’opera: non esiste, cioè, un tratto immanente in assoluto. A Roman Jakobson, secondo cui gli studiosi di letteratura ignari della svolta linguistica somigliano a poliziotti che per arrestare un uomo fermano alla cieca i coinquilini o i passanti, Brioschi ribatte che unicamente così svolgono il loro lavoro in maniera legittima, perché non possono mai sapere prima se in un testo si rivelerà più importante una determinata marca dello stile o un’allusione allo scrittore, una forma o una storia. Comunque e sempre, nulla si può capire se non si tiene presente il rapporto del testo con il paesaggio in cui è collocato, e che quindi ne delimita i contorni. «L’occhio che vuole davvero fissare la punta dell’ago in realtà ne scorre i contorni, oscillando tra il fuoco e lo sfondo: se fosse perfettamente immobile, in breve l’immagine svanirebbe» scrive elegantemente Brioschi; e lo dimostra con ammirevoli analisi (da confrontare con quelle di Peter Bürger) sui modi storici e contestuali attraverso cui percepiamo i meccanismi dei generi, l’umorismo, la metrica. Il suo ragionare acuto e chiaro tiene insieme senza sforzo i differenti piani dell’esperienza di lettura, e i suoi saggi disegnano per tappe una storia sia letteraria sia civile che a volte ricorda da vicino le pagine di Bollati. Si vedano ad esempio i passi in cui Brioschi spiega che per Leopardi la lirica diviene un momento di essere, un movimento intimo ormai privo di relazioni stabili con un pubblico e una tradizione istituzionale, e in cui illustra questa circostanza mostrando come il poeta temporalizzi i propri ritmi in «una trama di trascoloranti sonorità»: così, nell’endecasillabo «era mia vita: ed è, né cangia stile» della poesia Alla luna, “era mia vita” è «il primo emistichio di un endecasillabo a minore», ma da “ed è” ecco «sovrapporsi allo schema precedente, con un’ellissi desolata, l’altra cadenza, a maiore, trasformando quasi il verso nel corso della lettura per elementare virtù di sintassi. Il dettato poetico «si fa di conseguenza “diagramma sensibile del “cuore”, dei suoi ‘moti’ segreti e intermittenti».
Brioschi sostiene che nessun oggettivismo può offrirci di per sé delle interpretazioni esaurienti: perché si verifichino deve scattare una nostra scelta
La teoria si specchia dunque nella storia vissuta: perché se la seconda senza la prima è cieca, la prima senza la seconda è vuota. Allo stesso modo, la ragione più o meno schematizzabile nella logica formale ha bisogno di essere completata da una ragionevolezza più flessibile, ma non perciò arbitraria o “impressionista”. Dopotutto, esemplifica ottimamente Brioschi, quando diciamo che “la betulla è la fanciulla dei boschi” conosciamo bene i motivi per cui questa metafora funziona, e per cui ci sembra invece sbagliata una frase come “la betulla è la matrona dei boschi”. Il fatto è che la nostra interpretazione non è mai meccanica e passiva: integra momento per momento la decifrazione con l’immaginazione e con le conoscenze in apparenza più remote, e lo fa nella scienza e nella vita non meno che nell’arte.
Se ciò è vero, ossia se il contesto è decisivo, ne consegue che la teoria non è “teorizzabile”, o meglio non si può inventare tramite un calcolo, ma si rivela un’articolazione della stessa critica in atto. Chiamando in causa perfino Kurt Gödel, Brioschi sostiene che nessun oggettivismo può offrirci di per sé delle interpretazioni esaurienti: perché si verifichino deve scattare una nostra scelta. Come dire che dobbiamo prenderci la responsabilità di stabilire valori, modelli e argomentazioni: un’abitudine in Italia pochissimo diffusa, e non solo davanti alla letteratura. Lo dimostra il modo in cui cambiano i paradigmi teorici, o piuttosto ideologici. Dal crocianesimo si è passati allo strutturalismo, senza però tematizzare i limiti comuni alle due culture; e dallo strutturalismo si è scivolati poi verso eclettismi e sincretismi incapaci di dar conto delle ragioni della nuova svolta, con un atteggiamento trasformista e una mancanza di autocritica che costituiscono la prassi tipica di tutti i nostri ceti dirigenti. Quei sincretismi, nel caso, hanno inoltre coinciso con la retorica sul pluralismo di fine Novecento: una retorica, osserva Brioschi, che ha funzionato quasi sempre come alibi per restare al sicuro sulla cornice senza entrare nel quadro delle discussioni, cioè senza rischiare ipotesi e assumersi le relative responsabilità. Ecco un passo che descrive perfettamente le origini delle malattie civili di oggi, del finto irenismo e della balcanizzazione identitaria di fatto: «Noi non possiamo tradurre l’invito al conflitto fra opinioni concorrenti nel divieto di avere opinioni, nonché di crederci. Non possiamo stare tutti sulla cornice a predicarci l’un l’altro la dialogicità permanente, per poi scandalizzarci come davanti a una sconvenienza se qualcuno entra nel quadro e prende la parola, imputandogli di non avere a sufficienza meditato sulla Fine della Metafisica Occidentale, la Perdita del Centro, la Crisi della Ragione, il Tramonto della Totalità, la Dissoluzione del Soggetto, e insomma tutta l’iradiddio della Condizione Postmoderna».

Ma già l’idolatria del Testo, tra gli anni Sessanta e i Settanta, era un modo per evitare di entrare seriamente nel merito: questo significava, in fondo, l’archiviazione delle “questioni estetiche”. Il problema è che l’evitamento ha avuto come prezzo una quasi totale perdita di rilevanza dell’oggetto di cui si parlava. Proviamo a spiegarci. Oggi più che mai, vale la pena ripetere con Brioschi che una teoria non deve solo essere rigorosa, ma anche interessante. Al contrario, una buona parte dei prodotti semiologico-strutturalisti, e poi post-strutturalisti, dovuti alla corporazione accademica che trova i suoi più recenti alibi nel darwinismo o nell’ecologia, nel postcolonialismo o nelle neuroscienze, ha finito in genere per partorire un topolino. A cosa serve, un paradigma che non aiuta a distinguere Dante da Tzara, o perfino il Faust dal racconto della giornata che faccio a mia moglie in un vocale? Migliaia di testi destinati a nutrire il Moloch scolastico consistono appena in un eccesso di dimostrazione di ciò che è già di per sé evidente, senza che questo eccesso abbia la funzione fondativa che ha nelle scienze dure. In sintesi, da decenni la “scienza della letteratura” si agita tanto per troppo poco, mentre non riesce nemmeno ad affrontare credibilmente i nodi cruciali del potere e dell’ideologia nella storia (anche propria), nonché quelli della loro relazione con le forme, e della relazione tra i canoni e la società: tutto ciò su cui la critica militante moderna (ossia la critica che era implicitamente teorica appunto perché non si risolveva in un metodo) ci ha detto fino alla metà del Novecento assai più di quanto non ci abbiano detto gli studiosi dal 1965 al 2025. Ecco una questione che chi ha la fobia dell’“impressionismo” dovrebbe considerare con cura: non sarà mica, un tale dispendio di forze, scientificamente antieconomico?
Il rigore di Brioschi era il rigore che lui stesso indicava in Leopardi, cioè in un poeta e in un pensatore in cui la filosofia, non potendo più fissare delle essenze, si rivela però efficacissima nel dissolvere i propri errori
Si capisce allora perché la teoria di Brioschi torna a risolversi sempre nella critica – in una critica che è di per sé filosofica; e si capisce anche perché questa teoria-critica permette finalmente di porsi nel modo giusto una domanda attualissima: che ne è del canone, quando il senso dell’istituzione si dilegua? Il processo, lo sappiamo, è in atto da oltre un secolo; ma le sue conseguenze principali ci stanno sotto gli occhi appunto dagli anni del boom, che hanno segnato l’accademizzazione e l’industrializzazione del nostro dibattito culturale. In quella stagione, le opere hanno cominciato spesso a proporsi come meri allegati delle teorie; e soprattutto, gli autori si sono illusi di poter mantenere il loro consueto statuto pur nell’assenza via via più evidente di un attrito con il contesto. È un’illusione da colomba kantiana. Per usare una buona battuta di Fortini, la Neoavanguardia e tanto Postmodernismo hanno sempre ragione perché non hanno ragione mai: senza la resistenza dell’aria, cioè senza un dibattito in cui ogni attore sia disposto a ritagliarsi una verità argomentata e parziale, gran parte della letteratura degli ultimi decenni (narrativa, poetica, critica) è divenuta infatti un puro affare di scuola, culturalmente ed esistenzialmente irrilevante. La sua stessa egemonia, la sua apparente capacità di occupare ogni poro la privano di qualunque consistenza.
Brioschi ci invita a prendere un’altra strada. Come scrisse Giulio Ferroni nel necrologio dell’amico, «filosofia e letteratura si coniugavano intimamente nella sua esperienza, ma opponendosi a quella “letteraturizzazione” del discorso filosofico e a quelle disinvolte proiezioni della filosofia sulla letteratura che oggi vanno per la maggiore». Il rigore di Brioschi era il rigore che lui stesso indicava in Leopardi, cioè in un poeta e in un pensatore in cui la filosofia, non potendo più fissare delle essenze, si rivela però efficacissima nel dissolvere i propri errori. Diventa così una pratica negativa, critica, che rifiuta implacabilmente i conforti dell’Assoluto: fosse pure un Assoluto della Negazione.